L’ex generale del Ros dei Carabinieri, ascoltato alla commissione Antimafia nel filone sulla strage di Via D’Amelio, accusa i magistrati siciliani di aver ostacolato l’indagine voluta da Falcone e Borsellino sugli appalti condizionati da Cosa nostra
Era il 22 giugno 1990 quando Giovanni Falcone intervenne alla commissione parlamentare Antimafia per sollevare il problema del condizionamento di Cosa nostra negli appalti pubblici, richiamando le prime risultanze investigative raccolte dai Carabinieri: “Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’è, almeno nella Sicilia occidentale, una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione”, disse. A distanza di quasi 35 anni, ieri la Commissione Antimafia ha ospitato l’audizione dell’ex generale del Ros dei Carabinieri, Mario Mori, e dell’ex colonnello Giuseppe De Donno, cioè di coloro che operativamente all’inizio degli anni Novanta condussero l’indagine che andava nella direzione indicata da Falcone, la cosiddetta indagine “mafia e appalti”. Mori e De Donno sono stati ascoltati dall’Antimafia nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di Via D’Amelio. Secondo la sentenza definitiva del processo Borsellino-ter fu proprio l’attenzione posta da Paolo Borsellino all’inchiesta mafia e appalti a spingere Cosa nostra a uccidere il magistrato. In audizione De Donno ha riassunto i passaggi chiave che hanno segnato lo sviluppo dell’indagine. Alla prossima audizione il generale Mori tirerà le conclusioni e risponderà alle domande dei componenti della commissione. All’Antimafia è stato consegnato un corposo dossier, che il Foglio ha potuto visionare.
Nella relazione si ricorda che il 20 febbraio 1991 il Ros consegnò a Falcone, all’epoca procuratore aggiunto a Palermo, la prima annotazione sulle indagini mafia e appalti, dalla quale emergeva per la prima volta l’esistenza di legami tra esponenti mafiosi, politici e imprenditori di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in tutta la Sicilia. L’inchiesta venne considerata di importanza cruciale nella lotta a Cosa nostra, prima da Falcone e poi da Borsellino che, in seguito alla morte del suo collega nella strage di Capaci, si disse deciso a rilanciare il filone di indagini parlandone anche con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo l’inchiesta su Mani pulite. Eppure, sottolinea la relazione predisposta da Mori e De Donno, l’indagine mafia e appalti è andata incontro a innumerevoli ostacoli da parte innanzitutto di magistrati.
Basti pensare alla condotta di Pietro Giammanco, discusso procuratore di Palermo dal 1990 al 1992, che, ricevuto il dossier del Ros, non solo decise di frazionare l’indagine attivando altri uffici giudiziari (contro la visione “unitaria” di Falcone), ma consegnò alle difese degli arrestati l’annotazione del Ros senza gli omissis, di fatto rendendola nota a Cosa nostra. Su queste assurde decisioni (alle quali si aggiunge il singolare comportamento tenuto da Giammanco prima dell’attentato ai danni di Borsellino) nessun magistrato che si è occupato dei numerosi procedimenti tenutisi sulla morte di Borsellino ha mai voluto fare chiarezza, sentendo formalmente Giammanco, morto il 2 dicembre 2018.
Altrettanto singolari appaiono i tempi e le modalità con cui l’indagine mafia e appalti venne archiviata: il 13 luglio 1992, con Borsellino ancora in vita e deciso a riprendere il lavoro avviato da Falcone, gli allora pm palermitani Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte avanzarono richiesta di archiviazione dell’indagine, che venne ufficialmente depositata da Giammanco il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. L’indagine venne poi archiviata a tempo record, il 14 agosto, quindi in pieno periodo ferragostano, dal gip.
“Si ha un bel dire, come sostengono alcuni anche tra coloro che sono qui presenti (afferma Mori nella relazione riferendosi a Scarpinato, nda) che successivamente le vicende a base dell’inchiesta ‘mafia e appalti’ vennero riprese e trattate. Questo è vero, ma ciò è avvenuto sempre in modo settoriale e quindi parziale, perdendo di vista quella strategia complessiva, quella dimensione nazionale, che l’indirizzo prefigurato da Falcone, le iniziative di Borsellino volte a rivitalizzare ‘mafia e appalti’ e a stabilire intese operative con Antonio Di Pietro e quindi con la magistratura milanese impegnata in Mani pulite, unite agli esiti di altre inchieste, consentivano”. Insomma, accusa Mori, “più volte, nel corso di quell’attività sviluppata in Sicilia, ci è stata chiusa, come si dice, la porta in faccia, costringendoci ogni volta a ricominciare daccapo, fino ad obbligarci a desistere”. La responsabilità di chiarire, una volta per tutte, cosa avvenne spetta innanzitutto alla magistratura siciliana.