La borghesia romana di Via Torlonia, spaventata dalle scritte pro Pal, invia un esposto al capo della polizia: “Spostate il monumento”
“Fermare i lavori per la realizzazione del museo Shoah”. Non lo chiede un gruppo impazzito di antisemiti, un collettivo di studenti o pro Pal o qualche sigla neo nazista. Niente di tutto questo. Anzi. La richiesta arriva dall’alta e media borghesia illuminata di un pezzo della capitale, spaventata dall’eventualità che la nuova struttura – un progetto che ha atteso oltre vent’anni per diventare realtà – possa rendere il loro amato quartiere meno sicuro. Viviamo in uno “stato di incessante minaccia e allerta dall’apertura del cantiere”, denunciano. Le preoccupazioni di questa piccola ma importante porzione di città infatti sono state riassunte all’interno di un esposto che lo scorso 8 marzo è stato inviato al capo della polizia Vittorio Pisani, al questore di Roma Roberto Massucci e, per conoscenza, anche al comune. Sono i residenti di via Alessandro Torlonia, uno dei tre lati del cosiddetto triangolo verde, un’area signorile fatta di villette di pregio, alberi e sobrio lusso a pochi passi da Villa Torlonia. Quella che fu la residenza di Benito Mussolini si appresta infatti a ospitare il museo per ricordare l’Olocausto.
Ma la memoria spaventa i benestanti residenti che invitano la pubblica sicurezza a fermare il cantiere e “rivalutare la localizzazione in altra zona meno popolata”. Sono insomma i nimby della Shoah. Ricordare? Assolutamente necessario, ma non sotto casa mia, perché, spiegano: “Dall’apertura del cantiere per la costruzione del museo sono accaduti alcuni eventi intimidatori che stanno compromettendo in maniera significativa la sicurezza dei sottoscritti”. L’esposto è corredato da un centinaio di firme. Professori universitari, dirigenti pubblici, avvocati di grido e giornalisti. Tra loro c’è Augusto D’Agostino, già vicepresidente di Unicredit e oggi capo della gestione delle attività e della passività di Cdp, l’editorialista della Stampa Marcello Sorgi e sua moglie, la costituzionalista Anna Chimenti Caracciolo. C’è poi Ferdinando Emanuele, avvocato partner di uno dei più importanti studi legali della capitale, BonelliErede, la commercialista Delfina Pricolo, che siede dentro il collegio sindacale della partecipata della regione, Lazio Crea, la dirigente del Viminale Paola Nusca, ma anche lo scienziato dell’Esa Luca Conversi e la ballerina Giorgia Calenda, nessun imparentamento pare con il leader di Azione Carlo Calenda.
Nel documento vengono elencate le azioni che stanno spaventando i residenti. Il riferimento è soprattutto a una serie di “scritte, messaggi di odio e minacce” che sono apparse nella via dall’inizio del cantiere. Nell’esposto ne sono citate diverse: “Assassini, infami”, “Gaza 45.000 morti”, “Fermare il Genocidio a Gaza”. Scritte che, si legge nella missiva inviata al capo della polizia “con il tempo sono diventate sempre più frequenti e violente”. Tanto da portare gli abitanti di Via Torlonia anche a suggestionarsi un po’: “Alcuni dei messaggi sembrano essere scritti con il sangue”, scrivono nell’esposto prima di tornare alla realtà e precisare: “Anche se verosimilmente vengono attuati con smalto rosso”. Ma a preoccupare è soprattutto che accanto alle scritte pro Pal, nel tempo, ne sono spuntate altre “in colore blu a favore dell’accelerazione dei lavori del museo in cui invitavano il sindaco a concludere il prima possibile i lavori”. Insomma la paura è che il museo possa diventare l’arena per una versione teppista e capitolina del conflitto mediorientale. Visto quanto accaduto lo scorso anno tra brigata ebraica e pro Pal il 25 aprile non sarebbe certo una novità. “La sola affissione del cartello del cantiere ha innescato un duro confronto tra le opposte parti”, denunciano quindi gli abitanti di Via Torlonia, finendo perfino per sentirsi discriminati. Ricordano infatti che per ragioni di sicurezza è stato spostato dalla stessa zona l’asilo israeliano: “Se è stato deciso di spostarlo vuol dire che è stato rilevato un pericolo per la sicurezza pubblica. Se è così, non si comprende perché non si è fatto altro per tutelare la sicurezza di tutti gli altri cittadini. Ravvisiamo una forte discriminazione nella tutela: la sicurezza pubblica va tutelata in favore di chiunque, a prescindere dall’appartenenza a una comunità piuttosto che a un’altra”. Insomma perché i bambini ebrei sì e noi no?
La paura arriva addirittura a far temere attentati. “Si temono atti terroristici che potrebbero danneggiare il museo e gli edifici limitrofi che sono a una distanza ravvicinatissima”. E’ questo, secondo i denuncianti, un punto cruciale. “Il museo – dicono – sarà sempre un obiettivo sensibile”. Da persone raffinate e che conoscono il mondo citano dunque quanto accadrebbe negli altri paesi per motivare la necessità di spostarlo: “A Berlino è stato realizzato al centro di una enorme piazza ben lontana dagli edifici, a Washington sorge sulle sponde del fiume Potomac, ben lontano dalla zona abitata, allo stesso modo anche quello di Londra è situato nella Zona di Waterloo al centro di un enorme terreno spianato”.