Un nuovo documento chiede di introdurre forme più flessibili rispetto al solo contratto nazionale di ricerca: “I giovani non vogliono stabilità, ma stipendi più alti”, dicono i firmatari al Foglio. Ma il niet di Cgil (e del Pd) continua a bloccare il progetto del governo
Hanno voluto farsi sentire anche loro, i docenti di ruolo. Firmando un appello affinché risuoni ancora più forte il messaggio: il contratto nazionale di ricerca come unico strumento contrattuale sta ostacolando più che agevolando la vita dei giovani ricercatori. “E’ una soluzione in un mondo ideale, ma che non tiene conto della situazione accademica che abbiamo in questo momento”, racconta al Foglio Thomas Vaccari, docente di Biologia cellulare e applicata al dipartimento di Bioscienze dell’Università degli studi di Milano. Insieme al professor Michele De Luca dell’Unimore, al biologo Giulio Cossu e alla professoressa Graziella Messina, che insegna Istologia sempre alla Statale di Milano, ieri ha pubblicato un appello per illustrare tutte le criticità del nuovo contratto nazionale di ricerca. “Con il solo contratto nazionale si cerca di stare nel quadro delineato dalle istituzioni europee. Ma non si tiene conto che in un ecosistema universitario come il nostro, questa soluzione non è sostenibile. Rischia di creare più danni di quanti ne possa risolvere”, aggiunge ancora Vaccari.
Sul Foglio avevamo già raccontato la rivolta dei circa 600 ricercatori che hanno sottoscritto un appello sul sito Scienze in rete proprio per chiedere maggiore flessibilità contrattuale. Visto quanto il contratto nazionale di ricerca, entrato ufficialmente in vigore negli scorsi mesi dopo essere stato introdotto all’epoca del governo Draghi, abbia reso praticamente impossibile la stipula di nuovi contratti di ricerca che non rientrino nella casistica del solo contratto nazionale. Avevamo anche pubblicato, il 12 aprile, un ulteriore appello di tre ricercatori universitari (Elisabetta Cerbai dell’Università di Firenze, Antonio Musarò della Sapienza di Roma e Michele Simonato dell’Università di Ferrara) che evidenziavano, dal loro punto di vista, la necessità di un intervento del legislatore. Ed è quello che si augurano anche i firmatari di questa nuova lettera aperta. “Ci vuole pragmatismo, saper valutare la situazione per come si prospetta sul campo nel concreto”, dice ancora Vaccari. “Noi nel nostro appello facciamo riferimento al modello del ddl 1240”, il cosiddetto ddl Bernini, nel frattempo ritirato anche per la contrarietà di alcuni sindacati (tra cui la Cgil) e le opposizioni (soprattutto il Pd), per garantire “tutele adeguate, permettere un utilizzo più sostenibile delle risorse pubbliche e private, e favorire un accesso più equo e funzionale alla carriera scientifica. Ma non vuol dire che quello strumento sia l’unico. Si possono anche trovare le sfumature e le progressività per accompagnare l’introduzione del contratto unico, attraverso fondi aggiuntivi. Perché è chiaro che a parità di fondi assisteremo a un dimezzamento dei contratti di ricerca. Una situazione che non non andrà a migliorare affatto la condizione dei precari”.
Della stessa opinione anche Graziella Messina, che pone sul tavolo anche altre questioni degne di attenzione. “Il solo contratto nazionale di ricerca crea una rigidità che ci impedisce di affrontare la disparità geografica”, dice al Foglio. “Con gli assegni di ricerca avevamo un range di stipendio. Nel mio caso a me è capitato di ricevere, in passato, un importante finanziamento europeo. Così ho potuto pagare bene i miei assegnisti di ricerca, in modo da poter essere attrattivi, visto che a Milano il costo della vita è più elevato di Roma o Napoli. Tutto questo col solo contratto nazionale di ricerca viene meno”. Anche da qui nasce l’appello a dotarsi di un sistema più flessibile. “Con i giovani bisogna parlarci, capire che sono diversi dalla nostra generazione. Molti magari nemmeno ambiscono al posto fisso, a una stabilizzazione, piuttosto vorrebbero stipendi più alti”. Ma allora perché, a partire dalle opposizioni in Parlamento, s’è preferito giocare sullo slogan del contrasto alla precarietà invece di affrontare la situazione con soluzioni pratiche? “Io credo sia mancata la capacità di ascolto”, dice ancora Messina. “Da parte della ministra Bernini c’è stata più apertura al dialogo, mentre i sindacati sono stati più rigidi. Ma così chi ci finisce in mezzo sono i nostri ricercatori, che non hanno colpe”. Un aspetto positivo evidenziato dalla vicenda però c’è, conclude Messina: “La grande risposta che c’è stata nelle università, partendo dal basso, dai ricercatori più giovani. Fa ben sperare”.