Philip K. Dick, non solo profezie ma anche “poetica dello smarrimento”

Una preziosa edizione in due volumi ripercorre le opere anfetaminiche dello scrittore americano: un’indagine sulla condizione umana che prende vita sul fertile terreno fantascientifico, fra incertezza e inadeguatezza

Il recupero e innalzamento ad artista dello scrittore di genere causa la distruzione del genere letterario (o forse il processo è opposto, ma con il medesimo risultato). Così come la distinzione netta tra fiction e narrative non-fiction non ha più necessità di esistere, tanto che anche la Paris Review ora distingue giusto tra prosa e poesia, anche la letteratura di genere muore. Mentre i generi (sessuali) si moltiplicano, i generi letterari si fondono in un unico blocco dove a fare la differenza è solo il gusto, o le vendite, o l’influenza, o la nostalgia generazionale, nonché la riedizione. E così Ursula Le Guin diventa filosofa di riferimento, Ian Fleming viene pubblicato da Adelphi, e Philip K. Dick finisce nei Meridiani, tra De Roberto ed Emily Dickinson. Edizione in due volumi, preziosa come tutti i Meridiani, con curatela di Emanuele Trevi (il nostro Emmanuel Carrère) e cronologia in regalo firmata da Emmanuel Carrère (l’Emanuele Trevi francese). Ad affiancare Trevi c’è Paolo Parisi Presicce, che mette insieme una corposa bibliografia, da sola un volumetto. Perché quindi, tra tutti i grafomani che si sono divertiti nel secondo Novecento a immaginare pianeti, androidi e nazisti su Marte per riviste pulp, proprio Philip K. Dick? Come diceva in un’intervista Trevi, la generazione precedente alla sua – i Zolla, i Citati, i Garboli e i Siciliano – “non ci pensava nemmeno, a leggere una roba del genere”.

Certo, le opere anfetaminiche di Dick sono state importanti nella creazione del nostro immaginario (esempio massimo: Blade Runner, che Dick, morto a 53 anni, non fece in tempo a vedere se non per qualche spezzone). O forse lo sono le decantate doti profetiche tipiche dei maestri sci-fi, per cui oggi ci si diverte a trovare parallelismi con il presente, dall’ucronia trumpiana a Neuralink, fino al materiale evergreen che finisce in Black Mirror. Ma questo, in fondo, nell’epoca della reductio ad Orwellium, è un gioco facile, che si può fare con Tintin e con Ai confini della realtà, tanto quanto con i Simpson e con le copertine di Urania tanto amate da Michele Mari. Come spiega nella dettagliata prefazione-profilo Emanuele Trevi, Dick non solo è maestro, anche nelle sue opere meno fortunate, di “invenzioni sorprendenti” e di una trama da cui è difficile fuggire, ma è capace “di un’indagine sulla condizione umana al passo con le punte più avanzate dell’arte e del pensiero di metà Novecento”.

Certo, il terreno fantascientifico è molto fertile per creare i “se” che portano i personaggi a vivere situazioni assurde, ma Dick è soprattutto un “poeta dello sgomento”, capace di creare una “poetica dello smarrimento e dell’inadeguatezza”. E, soprattutto nella produzione degli anni 60, Dick è bravissimo a creare “un labirinto, una vertigine ontologica che mette, da un lato e dall’altro dello specchio di Alice, i personaggi nella stessa situazione di incertezza e smarrimento del lettore”. Trevi fa addirittura parallelismi con René Daumal e con Pasolini. E leggendo – o rileggendo – in questo doppio Meridiano L’uomo nell’alto castello o Le tre stigmate di Palmer Eldritch capiamo perché. Questo “infaticabile Martin Eden della fantascienza” sembrerebbe aver capito le emozioni umane, riuscendo a inserirle in una storia che non annoia, che è un po’ la sintesi della letteratura, a prescindere da laser, androidi e giapponesi che conquistano la California.

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