L’evoluzione ha creato capacità cognitive avanzate, in specie molto diverse, seguendo percorsi neurali differenti ma convergenti. Non serve una struttura cerebrale specifica, basta un contesto selettivo che premi la flessibilità nel comportamento
L’intelligenza — qualunque cosa sia — continua a sorprenderci. Non perché sia chiara, anzi: più la si studia, più sfugge. Non esiste una definizione univoca su cui tutti concordino. Alcuni la riducono alla capacità di risolvere problemi, altri puntano sull’apprendimento rapido, sull’uso di strumenti, sulla pianificazione. Ma se ne parla sempre come di qualcosa di raro, quasi unico. In realtà, le prove stanno andando nella direzione opposta: non è tanto la definizione dell’intelligenza a essere universale, quanto la pressione selettiva che la fa emergere.
Negli ultimi anni, si è accumulata un’evidenza crescente che almeno due grandi linee evolutive di vertebrati — i tetrapodi amnioti, che includono mammiferi, rettili e uccelli, e i teleostei, ovvero la stragrande maggioranza dei pesci ossei — hanno sviluppato circuiti cerebrali capaci di sostenere forme complesse di comportamento cognitivo, in modo indipendente, e con strutture neurali profondamente diverse. In un insieme di diversi lavori pubblicati a gennaio da Science, si dimostra che le reti cerebrali complesse — definite come quelle in cui un insieme di nuclei neuronali è fortemente interconnesso, con connessioni bidirezionali, presenza di ricorrenze e modulazioni neurochimiche — sono emerse separatamente nei due rami. Non sono state ereditate da un antenato comune, ma ricostruite da zero su basi diverse.
Nei mammiferi, queste funzioni sono sostenute dalla neocorteccia, una struttura stratificata e lamellare, emersa a partire dal pallio dorsale durante l’evoluzione dei tetrapodi. La neocorteccia, con i suoi sei strati distinti e la complessa organizzazione colonnare, consente l’elaborazione gerarchica delle informazioni sensoriali, la pianificazione del comportamento, la memoria di lavoro e molte altre funzioni cognitive superiori. È una delle innovazioni più emblematiche della linea mammaliana, ma non l’unica via possibile.
Negli uccelli, la convergenza è di tipo funzionale e non strutturale: il cervello avicolo ha infatti un’organizzazione nucleare, priva della stratificazione tipica dei mammiferi, ma dotata di gruppi neuronali altamente interconnessi che svolgono ruoli equivalenti. Le regioni come il nidopallio e l’arcopallio, per lungo tempo considerate semplici, si sono rivelate capaci di sostenere forme di cognizione complesse, dalla risoluzione di problemi all’apprendimento sociale e alla comunicazione vocale modulata. Le connessioni tra queste regioni, così come i pattern di attivazione, mostrano analogie funzionali con i circuiti della neocorteccia, pur essendo nati da un’origine embriologica distinta. Il risultato è una convergenza che riguarda non la forma, ma la funzione: cervelli diversi che fanno le stesse cose, usando architetture alternative.
Nei pesci teleostei, infine, la situazione è ancora più distante sul piano morfologico. Qui, le funzioni cognitive complesse sono state ricostruite a partire da una terza base anatomica: il pallio mediale e dorsale del telencefalo, che si è evoluto lungo una traiettoria indipendente. A queste strutture si aggiungono il tectum ottico, i gangli della base e aree del diencefalo, che nei teleostei cooperano per formare una rete densa di connessioni funzionali, ricorsive, modulabili chimicamente, del tutto compatibile con la definizione di circuito cognitivo centrale. Sebbene queste regioni non siano omologhe alla neocorteccia dei mammiferi né al sistema palliale degli uccelli, esse sostengono comportamenti altrettanto sofisticati: apprendimento per osservazione, rappresentazione dello spazio, uso di strumenti, strategie sociali adattative.
Ancora più lontano dalle strutture già divergenti che sostengono le capacità cognitive nei diversi gruppi di vertebrati, ci sono i polpi. Non solo appartengono a un phylum completamente distinto — i molluschi — ma presentano una configurazione neurale radicalmente diversa. Eppure, proprio qui, dove l’evoluzione ha preso una strada del tutto autonoma, emergono alcune delle manifestazioni più sorprendenti di intelligenza animale. Nei polpi, la maggior parte dei neuroni non si trova nel cervello centrale, ma distribuita nei tentacoli, che possiedono una notevole autonomia operativa. Il loro sistema nervoso è decentralizzato, plastico, e supportato da un genoma eccezionalmente complesso, con un’elevata capacità di editing dell’Rna, che consente una rapida riconfigurazione delle proteine neuronali. Eppure, nonostante l’anatomia aliena, nei polpi si osservano comportamenti che rientrano senza esitazioni tra le capacità cognitive superiori: uso di strumenti, risoluzione di problemi inediti, apprendimento per tentativi e per osservazione, esplorazione intenzionale, gioco, memoria spaziale, riconoscimento individuale di altri animali (inclusi gli esseri umani), capacità di pianificare una sequenza di azioni per raggiungere un obiettivo, e persino comportamenti di distrazione o camuffamento strategico. Sono in grado, ad esempio, di aprire barattoli a vite, di smontare dispositivi semplici, di imparare rapidamente a distinguere forme e colori, e di ricordare soluzioni apprese anche dopo lunghi intervalli.
A rendere tutto questo ancora più straordinario è l’assenza di uno dei fattori che nei vertebrati sembra favorire l’emergere di comportamenti cognitivi avanzati: la socialità. I polpi sono animali solitari, territoriali, con interazioni sociali minime. La loro intelligenza non si è sviluppata per navigare reti sociali complesse, ma per esplorare, manipolare e dominare ambienti fisici intricati e mutevoli. Questa traiettoria alternativa dimostra che la cognizione complessa non è legata a una sola forma di pressione selettiva. Può evolvere per motivi diversi — sociali, ambientali, ecologici — e in strutture profondamente differenti, purché risulti adattativa.
Tutto questo ci costringe ad allontanarci dalla visione lineare dell’evoluzione della cognizione. La “rete cognitiva centrale” non è una struttura singola, ma un insieme di connessioni funzionali che possono emergere in cervelli molto diversi tra loro. È un concetto operativo, non anatomico: ciò che conta non è la forma della rete, ma ciò che essa permette di fare — elaborare informazioni, immagazzinarle, richiamarle in modo flessibile, combinarle per simulare conseguenze, prendere decisioni. In almeno due occasioni certe, forse tre, l’evoluzione ha costruito reti con queste proprietà a partire da substrati del tutto differenti. Il fatto che le stesse funzioni emergano in cervelli organizzati in modo così differente suggerisce che siano le sfide ambientali a modellare convergenze, non le strutture ereditarie. L’ambiente terrestre, in particolare, esercita da milioni di anni una pressione selettiva ricorrente: per affrontare habitat complessi, instabili, tridimensionali; per riconoscere individui, gestire rapporti sociali, risolvere problemi nuovi, l’adattamento premia sistemi in grado di rappresentare il mondo, prevedere conseguenze, apprendere da esperienze singole o altrui. Non è necessario sapere che cosa sia l’intelligenza per riconoscere questo quadro: ogni volta che un contesto selettivo presenta questo tipo di sfide, l’evoluzione può selezionare circuiti che le affrontano.
È la convergenza il fatto biologicamente rilevante. Una convergenza non morfologica, ma funzionale. Le strutture cerebrali che la sostengono sono il prodotto di percorsi evolutivi distinti, modellati su basi embriologiche diverse. Ma arrivano, con straordinaria regolarità, a organizzazioni simili per proprietà computazionali. Connettività densa, feedback interni, uso di neuromodulatori, e distribuzione dei compiti tra sottosistemi cooperativi. In altre parole: cervelli molto diversi imparano a fare le stesse cose. Come se l’evoluzione, di fronte a problemi simili, trovasse inevitabilmente soluzioni simili, anche con materiali completamente diversi.
Le convergenze evolutive della cognizione complessa tra classi e persino phyla diversi — pesci, uccelli, mammiferi e polpi — rappresentano una delle scoperte più sorprendenti e destabilizzanti della biologia contemporanea. Si tratta di casi evidenti di convergenza funzionale profonda, in cui sistemi nervosi nati da strutture embrionali differenti e privi di omologie dirette evolvono indipendentemente circuiti in grado di sostenere capacità simili: apprendimento rapido, rappresentazione flessibile dello spazio e degli oggetti, memoria a lungo termine, uso di strumenti, risoluzione di problemi inediti, comportamenti strategici. Sono risposte simili a sfide simili, ottenute con materiali diversi. E questo cambia radicalmente il modo in cui intendiamo l’evoluzione della mente.
La prima conseguenza è che la cognizione complessa non è legata a un’unica architettura cerebrale. Nei mammiferi è sostenuta dalla neocorteccia, negli uccelli da strutture nucleari completamente diverse, nei pesci da un circuito ancora più distante nato nel pallio mediale, e nei polpi da un sistema nervoso decentralizzato che distribuisce l’elaborazione anche nei tentacoli. Ciò che conta non è l’omologia anatomica, ma l’organizzazione funzionale: il modo in cui queste reti codificano, integrano, modulano e trasformano l’informazione in comportamento flessibile.
Seconda conseguenza: la socialità non è l’unica forza selettiva che può portare all’emersione di capacità cognitive complesse. Nei vertebrati, la convivenza stabile, la cooperazione, la competizione intra- e interspecifica rappresentano pressioni potenti, in grado di selezionare la capacità di riconoscere individui, prevedere comportamenti, apprendere dagli altri. Ma l’esistenza dei polpi dimostra che la stessa flessibilità cognitiva può emergere in ambienti fisici mutevoli, manipolabili e pericolosi, anche in assenza di reti sociali complesse. La cognizione può evolvere anche per interagire con il mondo, non solo con gli altri.
Infine, la più radicale delle conseguenze: la cognizione complessa non è un’anomalia rara o improbabile, ma, almeno negli ambienti del nostro pianeta, una possibilità evolutiva accessibile. È emersa più volte, indipendentemente, ogni volta che le condizioni ambientali lo hanno richiesto: che fossero la necessità di cooperare, di competere, di cacciare con strategia o di esplorare un fondale sabbioso pieno di insidie. Non è un traguardo unico, ma una traiettoria che la vita ha imboccato più volte, usando strumenti diversi per ottenere risultati simili.
Se cervelli così diversi producono comportamenti simili, la cognizione complessa smette di essere un’esclusiva. Diventa un’espressione funzionale dell’adattamento a mondi complessi, una risposta selettiva ricorrente, che si realizza ogni volta che la combinazione di ambiente e storia evolutiva rende vantaggioso costruire rappresentazioni interne, apprendere dall’esperienza, adattarsi con flessibilità. In sostanza, nel grande laboratorio della vita, la complessità cognitiva non è un privilegio, ma una strategia ricorrente, che emerge più volte nonostante le profonde diversità anatomiche. Questo non significa che tutte le intelligenze siano uguali, né che debbano essere misurate con lo stesso metro. Ma significa che l’evoluzione sa costruire sistemi intelligenti ogni volta che ne ha bisogno. Non serve una neocorteccia. Non serve nemmeno che l’intelligenza venga da un’unica linea di discendenza. Serve solo una funzione da svolgere e un contesto sufficientemente selettivo.
Ed è proprio qui che la questione diventa interessante: se l’intelligenza può emergere in forme così diverse, cosa ci impedisce di pensare che possa farlo ancora? Altrove, in altri contesti, forse su altri pianeti, con materiali ancora più diversi? Il dato biologico ci insegna che non siamo il culmine di una storia lineare, ma un ramo tra molti. E che la cognizione complessa, lungi dall’essere un’anomalia, è una strategia tra le tante, già verificata e più volte selezionata in gradi e forme diverse.