Make America Greece Again. Il rischio degli Stati Uniti secondo Cochrane

Il deficit commerciale è solo un sintomo, i dazi di Trump non sono la cura: la causa degli squilibri è nel deficit fiscale e nelle politiche pro-consumo di Washington. L’economista indica le similitudini con la crisi greca

Gli Stati Uniti come la Grecia? Più che una provocazione, è una riflessione sugli squilibri economici della principale economia del mondo, per certi versi analoghi a quelli che hanno prodotto la crisi greca. La tesi suggestiva è di John Cochrane, Senior fellow della Hoover Institution e a lungo professore all’Università di Chicago, che analizza i problemi strutturali dell’economia statunitense a prescindere da Donald Trump (e spiega perché i dazi non risolvono alcun problema). Partiamo da Atene. La Grecia – spiega Cochrane, che sulla crisi dell’euro ha scritto con Luis Garicano e Klaus Masuch il libro di prossima uscita “Crisis Cycle” – entrando nell’euro ha rinunciato a inflazione e svalutazione in caso di crisi, ottenendo subito dai mercati prestiti a tassi bassissimi. Atene avrebbe potuto usare quei prestiti per investimenti produttivi, invece ha alimentato un boom dei consumi: auto tedesche in cambio di titoli di stato. Poi, improvvisamente, tutto è crollato. È ciò che rischiano gli Stati Uniti nel rapporto con la Cina.

Ma cosa c’entra la potentissima economia americana con la fragile economia greca? “Qualcosa di simile è accaduto agli Stati Uniti, su scala più ampia e senza nessuno pronto a salvarci”, avverte sul suo blog Cochrane. Per una serie di ragioni strutturali, che spesso prescindono anche dalle decisioni politiche, alcuni paesi hanno un alto tasso di risparmio e non vedono buone opportunità di investimento nella propria economia. Il caso emblematico è della Cina. Oltre alle politiche mercantiliste del governo, la Cina ha una demografia sfavorevole e di fronte alla prospettiva dell’invecchiamento della popolazione, per giunta in assenza di un welfare robusto, i cinesi tendono a risparmiare molto per potersi garantire un’anzianità decente. E così hanno scelto di investire negli Stati Uniti, dove probabilmente vedono più opportunità che in casa. Questo fenomeno è esattamente l’altra faccia del deficit commerciale. “Se gli Stati Uniti importano più di quanto esportano – dice Cochrane spiegando una banale identità contabile – devono dare agli stranieri qualcosa di valore in cambio. Persino la Cina non ci invia beni gratuitamente. Noi diamo dollari, titoli del Tesoro, azioni e obbligazioni in cambio”.

È, in sostanza, l’esorbitante privilegio del dollaro di cui, paradossalmente, si è lamentato il capo dei consiglieri economici di Trump, Stephen Miran, affermando che lo status di valuta di riserva del dollaro, cioè la facoltà per di stampare denaro e inviarlo all’estero in cambio di beni e servizi – è in realtà un peso per gli Stati Uniti, ovvero un “bene pubblico globale”, che gli altri paesi devono pagare. Il problema non è il privilegio del dollaro e la capacità di potersi finanziare a tassi bassi, dice Cochrane, ma l’uso che ne è stato fatto. E qui torna utile il caso della Grecia. Gli Stati Uniti hanno reagito all’offerta di altri paesi di comprare asset statunitensi a tassi di interesse molto bassi, dice l’economista, “non costruendo fabbriche, ma dando sfogo a un’abbuffata di consumi. Proprio come aveva fatto la Grecia. Gran parte di ciò è dovuto alle azioni del governo federale. Il deficit commerciale totale è di circa 1.000 miliardi di dollari. Il deficit di bilancio degli Stati Uniti è di circa 1.300 miliardi di dollari”. Tutta questa massa di risparmio globale viene quindi assorbita dal governo americano che, però, “non sta costruendo un trilione di dollari all’anno di investimenti produttivi” ma sta, in linea di massima, “inviando assegni ai suoi cittadini per sostenere i consumi correnti. Il governo federale ha visto un’incredibile opportunità di indebitarsi a basso costo, a volte persino a tassi di interesse reali negativi. Si è indebitato, e ha inviato assegni agli elettori felici”.

Il deficit fiscale – che ora è al 7% e alimenta un debito pubblico attualmente al 100% del pil, a pochi punti dal record del 107% raggiunto subito dopo la Seconda guerra mondiale, ma proiettato al 156% nel 2055 – è l’altra faccia della medaglia del deficit commerciale. Anzi, in una certa misura ne è la causa. Mentre Donald Trump si concentra sulla conseguenza, che peraltro non può essere corretta dai dazi se non al prezzo di una depressione economica. Sarà anche vero che la Cina ha una politica che deliberatamente riduce i consumi e aumenta il risparmio, ma molto dipende da fenomeni strutturali indipendenti dal governo di Pechino.

E, soprattutto, sottolinea Cochrane, dare tutta la colpa alla Cina nega qualsiasi ruolo o responsabilità degli Stati Uniti, che invece sono grandi e riguardano anche i governi democratici prima di Trump. Pechino avrà adottato misure pro-risparmio, ma Washington ha fatto misure pro-consumo. “Abbiamo ogni sorta di politica contro il risparmio, contro gli investimenti e a favore dei consumi – scrive l’economista –. Tassiamo pesantemente i risparmi e i tassi di rendimento, comprese le imposte sulle società, le imposte su interessi, dividendi e plusvalenze. Il nostro establishment politico keynesiano ha trascorso vent’anni a spingere i consumi con stimoli fiscali, timori di stagnazione secolare e sotto molteplici bandiere a dire che il debito pubblico non deve mai essere ripagato”.

Se è vero che il problema esiste, “i dazi non lo risolvono”. Bisogna curare la malattia, non i sintomi: ciò che serve è “una riforma fiscale per tassare i consumi, anziché i risparmi e gli investimenti”. Altrimenti il rischio è che presto o tardi gli Stati Uniti, come peraltro ha mostrato la recente perdita di fiducia nei Treasury americani provocata dai dazi di Trump, avranno una crisi del debito. E a quel punto lo slogan MAGA assumerà un altro significato: Make America Greece Again.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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