Cosa dicono i dodici finalisti del Premio Strega sulla letteratura italiana. Eppure ci sembrava di ricordare che gli scrittori, nel bene o nel male, dovrebbero lavorare sulla lingua. Piegarla. Trasformarla
“Chiudo la porta e urlo”. Sarebbe un gran titolo per questo articolo sul Premio Strega 2025. Se non se lo fosse già aggiudicato Paolo Nori, uno dei 12 finalisti (esce da Mondadori). Il terzo libro dedicato ai suoi poeti prediletti, questa volta si tratta di Raffaello Baldini da Sant’Arcangelo, che spesso scrive in dialetto. Prima, nella serie dei poeti in ambasce, abbiamo avuto “Sanguina ancora”, dedicato a Dostoevskij, e “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” dedicato ad Anna Achmatova.
Non stiamo giocando. Qualcuno più bravo di noi – possiamo suggerire Stefano Bartezzaghi? – potrebbe ricavarne una poesiola oppure un cruciverba. L’atmosfera cupa non è una nostra invenzione. Sostiene Melania Mazzucco, presidente del comitato direttivo (lo scriviamo minuscolo, più elegante delle numerose maiuscole impiegatizio-fantozziane). “Il leit motiv di quest’anno è la follia”.
Per essere più chiari: “Sbriciolamento dell’Io, depressione, crollo psichico. Nel 2025 la salute mentale è un’emergenza sociale, ma anche letteraria”. Non solo, c’è anche l’emergenza linguistica: “Tranne che in pochi ambiziosi romanzi simbolisti o sperimentali, si tratta perlopiù di un italiano funzionale”. Il lettore, già depresso, è al tappeto.
Nei candidati allo Strega 2025, la mente è fragile, ma la lingua regge. Eppure ci sembrava di ricordare – letture antiche e adolescenziali, senza dubbio, aggravate da una pessima educazione letteraria – che gli scrittori, nel bene o nel male, dovrebbero lavorare sulla lingua. Piegarla. Trasformarla. (Era anche lo spirito guida dei critici italiani, fino all’altro ieri: “La lingua, la lingua, manca il lavoro sulla lingua…”). Noi della lingua fanatici non siamo, ma contenuti deprimenti e lingua di servizio fanno una pessima combinazione.
Gli scrittori – o le loro controfigure letterarie, non facciamo confusione – tanto con la testa non ci stanno. Non facciamo confusione, siamo già stati scottati. Ricorderemo sempre l’orribile delusione di un regista che girava film noiosi come macigni, abbandonate ogni speranza voi che pagate il biglietto. Premiatissimo ai festival per la sua cupaggine irrimediabile. Il tempo di una cena davanti al mare, fece una corsetta sulla spiaggia, si levò pantaloni e mutande e sguazzò felice. Quasi: era l’Adriatico, camminò a lungo prima di arrivare con l’acqua alle ginocchia. Una comica memorabile.
Hanno “l’io sbriciolato”, sostiene Melania Mazzucco. E tutto alle spalle, come se fossero stati investiti da una catastrofe – però il Covid no, basta, facciamo una bella moratoria. Qualche titolo: “Di spalle a questo mondo” di Vanda Marasco: parlando di letteratura che proprio non fa venire voglia – certo che la letteratura dovrebbe far venire voglia, se no cosa leggiamo a fare? per punirci? Come quelle copertine con la donna con la treccia che volta le spalle al lettore. E’ opera del pittore tedesco Gerhard Richter: lo sguardo verso il vuoto e la perdita, una delle immagini più usate per suggerire angoscia. Andrebbe bene anche per “Perduto è questo mare”, di Elisabetta Rasy. Oppure per “Ricordi di suoni e di luci. Storia di un poeta e della sua follia” di Renato Martinoni. E perché no, sulla copertina di “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, di Michel Ruol (sponsor Walter Veltroni). Una fantasmagoria di cose che erano e più non sono, l’artista ne è senza ritegno attratto.
Si registra, quando la cerimonia degli annunci non era ancora finita (chi era presente se n’è accorto) la prima polemica. Perché è stata esclusa Nicoletta Verna con “I giorni di vetro”, 50 mila copie già vendute? Con la fascetta Strega potevano raddoppiare.