La disciplina di bilancio non basta: le incognite del Dfp

Il Documento di finanza pubblica 2025 mostra un miglioramento dei conti grazie a maggiori entrate fiscali, soprattutto dal lavoro dipendente. Tuttavia, manca una chiara direzione politica e un piano programmatico per gestire le scelte economiche future

Tenere i conti pubblici in ordine è fondamentale, e che l’Italia riesca a farlo è una buona notizia. Il Documento di finanza pubblica (Dfp) 2025 segnala un miglioramento dei saldi: il deficit scende al 3,4 per cento del pil, meglio delle previsioni precedenti. Tuttavia, dietro i conti che tornano, manca una cosa essenziale: una direzione politica. Il Dfp non ha un quadro programmatico. Non dice cosa faremo con i 25 miliardi ancora non spesi tra Pnrr e Fondi di coesione, che si ipotizza di utilizzare per compensare le imprese colpite dai dazi americani. Non chiarisce se si farà ricorso alle clausole europee per scorporare dal calcolo del deficit le spese per la difesa. E tace su una delle partite più delicate: l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita, una misura che da sola vale 4 miliardi. Decidere di non decidere è, a sua volta, una decisione. Ma non è una strategia. Sostenere che non serva un quadro programmatico perché “la spesa è fissa per sette anni” non regge. La spesa è vincolata, ma le combinazioni tra entrate, spesa primaria e interessi offrono margini ampi per manovre di politica economica. C’è dunque spazio per scelte che vanno esplicitate. Non si può navigare con il solo pilota automatico della nuova governance europea, senza indicare la rotta politica.

Non tutto però è implicito. C’è una tabella nel Dfp da cui si capisce bene che il deficit scende. La spesa pubblica cala per il venir meno del Superbonus, mentre le entrate aumentano. E’ qui che la questione diventa politica. Perché il risanamento è finanziato in larga parte dal lavoro dipendente. Salgono i contributi sociali (+3 per cento) e sale l’Irpef per effetto della progressività (+6 per cento). Questo è compatibile con l’aumento dell’occupazione, ma anche con un aumento dei salari nominali che nel 2024 sono saliti del 4 per cento, superando finalmente l’inflazione. Il problema è che, nonostante la ripresa, i salari reali italiani restano ancora il 6 per cento sotto i livelli del 2019. Chi lavora ha recuperato qualcosa, ma non abbastanza.

Nel frattempo, la pressione fiscale è aumentata. E questo merita una spiegazione. La pressione fiscale misura la quota del reddito che lo stato preleva sotto forma imposte e contributi. Tecnicamente è una frazione dove al numeratore vi sono imposte e contributi e al denominatore il pil. Ovviamente se prima ero disoccupato e ora lavoro pago le tasse e il numeratore aumenta, ma aumenta anche il denominatore. Quindi perché dovrebbe aumentare la quota del reddito che in media versavano quelli che prima lavoravano? In realtà questo può avvenire per due motivi, entrambi legati al fatto che il lavoro dipendente è tassato con il cosiddetto sistema progressivo: quanto più guadagno, tanto maggiore è la quota del reddito che pago. Una prima ipotesi è che i nuovi occupati guadagnino un salario superiore alla media di coloro che erano occupati prima; quindi, il salario in più che si aggiunge al denominatore porta con sé al numeratore delle tasse che sono una quota di reddito maggiore di quella che in media si pagava prima. Tuttavia, si legge sempre all’interno del Dfp, che il pil reale per ora lavorata nel 2024 diminuisce di 1,4 per cento, nonostante il pil reale in termini aggregati aumenti di 0,7 per cento. Questo ci induce ragionevolmente a pensare che i nuovi occupati non appartengano a classi di reddito superiori alla media. Quindi, questa nuova occupazione non può aver contribuito ad aumentare la pressione fiscale, ma forse a diminuirla. La seconda ipotesi più ragionevole si rifà ai numerosi rinnovi contrattuali i cui effetti si sono registrati nel 2024. In questo caso siamo di fronte a un aumento del salario e quindi il sistema fiscale preleva una quota maggiore di quanto prelevava prima. Ed ecco che aumenta la pressione fiscale. C’è però un problema. Gli aumenti contrattuali stipulati nel 2023 e 2024 sono stati esclusivamente finalizzati a recuperare il potere di acquisto perso dai lavoratori e quindi l’incremento di pressione fiscale non ha alcuna ragione di essere, visto che il reddito reale rimane costante, se va bene. La pressione fiscale quindi aumenta per il fenomeno del fiscal drag che di fatto finanzia lo sbandierato miglioramento dei saldi.

Negli anni precedenti al 2024, il fiscal drag ha colpito soprattutto i redditi sopra i 35mila euro, che non sono stati compensati dalla riforma fiscale. Secondo stime indipendenti, tra il 2022 e il 2023 il drenaggio fiscale ha sottratto circa 25 miliardi ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Queste entrate se non verranno sterilizzate (come si dovrebbe fare) con un aumento, in linea con l’inflazione subita, dei limiti degli scaglioni attuali dell’Irpef, saranno di fatto garantite ogni anno alle casse dello stato, contribuendo in modo silenzioso e strutturale alla riduzione del deficit. Se davvero si vuole proseguire su una traiettoria di stabilità senza comprimere la crescita, serve un piano chiaro. La disciplina di bilancio non basta, se non è accompagnata da una visione. Un paese non può limitarsi a rispettare vincoli europei: deve scegliere come farlo. Perché le scelte non sono mai neutre. Decidere di finanziare la riduzione del deficit con la maggiore pressione fiscale sui lavoratori, o il ritorno all’adeguamento automatico delle pensioni, sono scelte politiche. Come tale, vanno dichiarate. E discusse. Per questo, serve un quadro programmatico. Altrimenti, si governa per inerzia.

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