Premio Nobel per la Letteratura nel 2010 e primo scrittore di lingua spagnola a essere designato nel 2023 Accademico di Francia, era l’ultimo dei “Quattro Grandi” del fenomeno letterario “Boom latinoamericano”
Premio Nobel per la Letteratura nel 2010, Premio Cervantes nel 1994, Premio Príncipe de Asturias de las Letras nel 1986, Premio Biblioteca Breve nel 1962, Premio Rómulo Gallegos nel 1967, Premio Planeta nel 1993, insignito dalla corona spagnola col titolo di marchese per suoi meriti letterari, primo scrittore di lingua spagnola a essere designato nel 2023 Accademico di Francia, il peruviano anche con cittadinanza spagnola Mario Vargas Llosa era rimasto l’ultimo ancora in vita tra quelli che furono definiti i “Quattro Grandi” del fenomeno letterario “Boom latinoamericano”. Gli altri furono il colombiano Gabriel García Márquez, l’argentino Julio Cortázar e il messicano Carlos Fuentes. È morto ieri a Lima, di polmonite, 16 giorni dopo aver festeggiato il suo 89esimo compleanno.
Secondo una dichiarazione rilasciata dai figli Álvaro, Gonzalo e Morgana Vargas Llosa, il grande scrittore è morto circondato dalla famiglia e in un clima di pace, dopo una vita “lunga, varia e fruttuosa”. Nel testo, hanno espresso il loro dolore per la perdita, ma hanno anche affermato di trovare conforto nell’opera che il padre ha lasciato in eredità ai suoi lettori in tutto il mondo. Autore di 20 romanzi, due raccolte di racconti, una autobiografia, 15 saggi, 16 raccolte di articoli, 10 opere teatrali, da sue opere sono state tratti 10 film e cinque sceneggiati tv. Commentò però “pensavo che mi avessero completamente dimenticato”, quando seppe che gli avevano infine dato il Nobel per la Letteratura, con almeno una trentina di anni di ritardo. In molti sospettarono un veto di lobby di sinistra. In effetti, dopo essere stato comunista da giovanissimo e poi militante democristiano per influenza di alcuni amici, Vargas Llosa si sarebbe convertito al castrismo all’epoca della Rivoluzione Cubana, per rompere però poi col regime dell’Avana nel 1971 dopo l’incarcerazione del poeta Heberto Padilla. Quella fu anche l’occasione per una rottura anche personale con altri protagonisti del Boom di cui era stato amico, in particolare García Márquez e Cortázar. Gabo, cui aveva dedicato una tesi di dottorato su “Cent’anni di solitudine” poi diventata un saggio, finì per prenderlo addirittura a pugni. Nelle sue conferenze spiegava: “io e lui siamo comunque d’accordo nel voler lasciare ai nostri futuri biografi il compito di indagare sul perché accadde”.
Socialdemocratico negli anni ’70, Vargas Llosa sarebbe passato negli anni ’80 a un liberalismo estremamente ortodosso dopo un corso di studi sull’economia politica negli Usa, e in reazione al populismo del primo mandato di Alan García nel suo Perù. Anzi, arrivò a scendere in campo, fondando un partito liberale, e candidandosi alla presidenza peruviana nel 1990. Fu sconfitto al ballottaggio da Alberto Fujimori, che prese i voti della sinistra facendo terrorismo sul suo “ultraliberismo”, salvo poi una volta al potere fare una politica molto più a destra, fino a un golpe bianco contro il Congresso. Probabilmente fu una fortuna, visto che tutti i presidenti peruviani eletti dal 1985 in poi sono finiti in galera: salvo il citato Alan García, che lo evitò suicidandosi. In una intervista che rilasciò proprio per il Foglio nel 1997, Vargas Llosa ammise di aver capito che la politica non era il suo mestiere. Continuò però a prendere posizioni su temi politici, attaccando in particolare l’autoritarismo di sinistra di stampo chavista, e una volta ai tempi di Chávez rischiando addirittura l’arresto durabt una visita a Caracas. Quando fu nominato Accademico di Francia quattro “Immortali” protestarono, definendolo “di estrema destra”. Ma si è detto anche contro le leggi anti-immigrazione; favorevole ai matrimoni gay; critico dell’occupazione israeliana nei Territori; contrario all’intervento in Iraq, anche se poi cambiò idea dopo una lunga visita nel Paese post-Saddam; ovviamente ostile al “clown” Trump. “Tiempos recios”, il suo penultimo romanzo, fu nel 2019 una denuncia dell’intervento Usa in Guatemala nel 1954. “Sono liberale perché è il liberalismo la vera rivoluzione per l’America Latina”, spiegò. Va pure menzionato il suo interesse per le teorie del capitalismo informale che lo portò a scrivere la prefazione al primo famoso best-seller di Hernando De Soto “El otro sendero”, anche se poi i due litigarono.
In realtà, l’ostracismo di Stoccolma per motivazioni di sinistra è probabilmente una leggenda, se si pensa che negli anni ’70 il Premio Nobel per la Letteratura fu dato anche al denunciatore del gulag Aleksandr Solženicyn e al senatore liberale Eugenio Montale. Forse il problema vero fu piuttosto che Vargas Llosa non faceva il colore che da un latino-americano ci si aspettava. Studioso pignolo e analista attento delle tecniche di composizioni letteraria, autore anche di un gustosissimo manuale per giovani romanzieri, maestro in particolare in quella tecnica dei “vasi comunicanti” in cui varie storie procedono su piani separati per poi incontrarsi alla fine, Mario Vargas Llosa ha dedicato pagine caustiche alla gran quantità di cattivi scrittori latino-americani che hanno ignorato volutamente il problema della forma, nell’idea che bastasse “denunciare problemi” e descrivere un po’ di ambiente locale per fare arte.
Tra tanti brocchi, c’è stato ogni tanto qualche purosangue che è riuscito a portare a quel tipo di temi il suo talento. E sono così venute le saghe ottocentesche di Gabriel García Marquéz, i sortilegi di Jorge Amado e Alejo Carpentier, le cosmogonie mitologiche di Miguel Ángel Asturias o di Pablo Neruda: ma anche le finzioni enciclopediche di Jorge Luis Borges e la commedia umana del primo Mario Vargas Llosa rientrano in fondo in questo stereotipo. E così è venuto appunto quel citato “Boom” letterario latino-americano che ha venduto milioni di copie in best-seller, ha fatto conoscere l’America Latina, ma l’ha pure crocifissa a uno stereotipo di esotismo e cartolina. Magari condito da un pizzico di buona coscienza terzomondista.
Questa situazione ha alla fine generato la ribellione di autori come i cileni Albero Fuguet o Roberto Bolaño. Ma, appunto, Vargas Llosa è stato l’autore del Boom che poi è riuscito ad andare oltre il Boom. Non solo per essere vissuto più a lungo, dunque, alla fine è quello che rimane di più. A volte anche continuando a parlare di America Latina, come nei due straordinari affreschi epici “La guerra della fine del mondo” e “La festa del caprone”. Ma si trattava di due vicende, il fanatismo ideologico di una rivoluzione millenaristica brasiliana e una cospirazione contro un dittatore dominicano, di un significato altrettanto universale di altri affreschi che ha invece dedicato a personaggi come il pittore Paul Gaugain o il rivoluzionario irlandese Roger Casement. Per non parlare di straordinarie contaminazioni come quella del “Narratore ambulante”, con l’ebreo che racconta agli indios la storia della Metamorfosi di Kafka; o il “Caporale Lituma nelle Ande”, trasposizione addirittura del mito di Dioniso in mezzo alla ferocia terrorista di Sendero Luminoso.
“Riposa in pace, più illustre peruviano di tutti i tempi”, è stato ora il messaggio della presidente Dina Boluarte.