La situazione ribaltata in cui il ministero degli Esteri cinese diffonde il video di un discorso di Ronald Reagan contro dazi e protezionismo. Da Ricardo a Friedman passando per Bastiat e Pareto
Ci hanno fregato per anni”. “Ci stanno fregando”. “L’Unione europea è nata per fregarci”. Al netto di tutte le possibili considerazioni politiche, alla base della guerra commerciale globale scatenata da Donald Trump c’è questa la visione del commercio internazionale non di un gioco a somma positiva, in cui tutti i partecipanti guadagnano, ma un gioco a somma zero in cui c’è chi vince e c’è chi perde. E vince chi vende di più (surplus commerciale), mentre perde chi compra di più (deficit commerciale). Di conseguenza “dazio” è, per il presidente degli Stati Uniti, “la parola più bella del dizionario” e lo strumento capace di risolvere ogni problema.
A Trump ha risposto indirettamente il suo finanziatore e sostenitore, nonché membro della sua Amministrazione, Elon Musk con la pubblicazione di un vecchio video di Milton Friedman in cui il premio Nobel per l’Economia spiegava i pregi del libero commercio attraverso una matita: “Non c’è una singola persona al mondo capace di fare questa matita”. Persino un oggetto così semplice, era il senso dell’esempio dell’economista, necessita della cooperazione di tante persone in diverse parti del mondo: il legno dagli Stati Uniti, la grafite dal Sud America, la gomma dalla Malesia, la ghiera e la vernice forse dall’Europa, etc. Cosa fa collaborare migliaia di persone che non si conoscono e parlano lingue diverse? “Non c’è nessun commissario che invia ordini da qualche ufficio centrale – dice Friedman -, è la magia del sistema dei prezzi: l’impersonale funzionamento dei prezzi le ha unite e le ha spinte a collaborare per realizzare questa matita, così che possa essere acquistata per una somma irrisoria”. La morale della parabola di Friedman va però oltre la semplice efficienza economica: “Ecco perché il funzionamento del libero mercato è così essenziale. Non solo per promuovere l’efficienza produttiva, ma ancora di più per promuovere l’armonia e la pace tra i popoli del mondo”.
A ben guardare la visione di Trump del commercio internazionale come “fregatura” è un banale errore di comprensione di uno dei principi economici basilari: la teoria dei vantaggi comparati. Una teoria apparentemente semplice, che spiega perché il libero scambio è vantaggioso per tutti, ma in realtà sofisticata e incompresa da oltre 200 anni, cioè da quando fu formulata nel 1817 dall’economista britannico David Ricardo. Una volta un importante matematico sfidò il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson a indicare una sola teoria economica che fosse allo stesso tempo vera e non banale, Samuelson citò proprio la teoria dei vantaggi comparati. Di cosa si tratta?
Adam Smith aveva delineato nella “Ricchezza delle nazioni” (1776) una teoria dei vantaggi assoluti: se un altro paese può fornire un prodotto a un prezzo inferiore è più conveniente importarlo anziché produrlo internamente a costi superiori. Meglio concentrarsi sulla produzione di altre cose su cui si è più competitivi: all’Italia conviene importare la soia dagli Stati Uniti e produrre olio d’oliva da esportare negli Stati Uniti. Ma David Ricardo nei suoi “Principi di economia” (1817) fa un passo avanti rispetto a Smith. Anche se un paese riesce a produrre entrambi i beni a costi inferiori rispetto a un altro, gli conviene specializzarsi nella produzione del bene che gli costa relativamente meno, così può esportarlo e, in cambio, importare il bene che gli costa relativamente di più: alla fine entrambe le economie saranno più ricche. Ricardo usa l’esempio del commercio tra Portogallo e Inghilterra, mostrando che nonostante il Portogallo fosse più efficiente dell’Inghilterra nella produzione sia di vino sia di vestiti, gli conveniva specializzarsi nella produzione di vino per scambiarlo con i vestiti prodotti in Inghilterra: rispetto a uno scenario autarchico, sia l’Inghilterra sia il Portogallo si ritrovano con più vino e più vestiti. Nessuno ha “fregato” nessuno, tutti ci hanno guadagnato.
Ma l’idea che un paese debba produrre tutto ciò che può, tutto ciò che in teoria sarebbe capace di fare, è dura a morire. E il problema non è solo che Trump è un grezzo populista, ma è molto più profondo. Il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman, a metà anni 90, quando la globalizzazione si stava allargando, scrisse un saggio intitolato “La difficile idea di Ricardo” per spiegare come mai anche raffinati intellettuali rifiutano o fanno fatica a comprendere la teoria dei vantaggi comparati: “L’idea di vantaggio comparato, con la sua implicazione che il commercio tra due nazioni normalmente aumenti i redditi reali di entrambe, è come la teoria di Darwin sull’evoluzione attraverso la selezione naturale: un’idea che sembra semplice e avvincente a chi la comprende, ma sulla quale le persone intelligenti in qualche modo riescono a confondersi ripetutamente”. E’ così da oltre due secoli. Ed è l’altra faccia della medaglia del successo e della persistenza dell’idea del protezionismo economico, che si è dimostrata fallace sia nelle sue versioni più soft (si pensi all’Argentina o all’India nel Dopoguerra) sia nelle sue versioni più estreme (la Corea del nord o l’Albania di Hoxha).
Ricardo sviluppò la sua teoria in seguito all’introduzione nel Regno Unito delle Corn laws nel 1815, una serie di dazi e restrizioni all’importazione di cereali per proteggere i produttori nazionali dalla concorrenza straniera. Il dibattito sulle Corn Laws fu feroce e durò decenni definendo sia lo scontro politico, a favore i Tory (conservatori) e contrari i Whig (liberali), sia il confronto intellettuale, da un lato Thomas Malthus e dall’altro David Ricardo e soprattutto Richard Cobden che con al sua Anti-Corn-Law League lottò strenuamente contro il protezionismo vincendo la battaglia politico-intellettuale con l’abolizione delle Corn laws nel 1846 e il trionfo del free trade come filosofia economica dell’Impero britannico.
Ma per i due successivi secoli, durante rivoluzioni industriali e guerre, trasformazioni sociali e tecnologiche, la battaglia intellettuale tra protezionismo e liberoscambismo è proseguita a lungo. Per questa ragione la “difficile idea di Ricardo”, come l’ha definita Krugman, ha avuto bisogno di avvocati brillanti che, più di modelli matematici ed evidenze empiriche, sono riusciti a divulgare i benefici di un’idea controintuitiva.
Uno dei più acuti è stato l’economista e giurista Frédéric Bastiat che, ispirato dalle idee di Cobden, condusse un’analoga battaglia contro il protezionismo in Francia. Tra i suoi “Sofismi economici”, una serie di racconti polemici e satirici che smontano i luoghi comuni e gli errori più diffusi in economia, che il Foglio pubblicò a puntate nel 2017, vi è la “Petizione dei fabbricanti di candele”. Bastiat scrive una petizione in cui i produttori di “candele, ceri, lampade, candelieri, lampioni, smoccolatoi e spegnitoi” chiedono al Parlamento francese di proteggerli dalla concorrenza sleale di una potenza estera: il Sole. L’assurdo appello si sviluppa con assoluto rigore logico, riprendendo tutti gli argomenti usati dai deputati francesi per difendere gli altri settori dell’economia dalle importazioni. “Stiamo soffrendo la rovinosa concorrenza di un rivale straniero, che apparentemente lavora in condizioni talmente superiori alle nostre per la produzione di luce che sta inondando il mercato interno ad un prezzo incredibilmente basso – fa scrivere Bastiat ai produttori di luce artificiale –. Nel momento in cui appare, le nostre vendite diminuiscono, tutti i consumatori si rivolgono a lui, e un intero comparto dell’industria francese con innumerevoli ramificazioni viene ridotto tutto d’un colpo alla completa stagnazione. Questo rivale, che non è altro che il sole, ci sta facendo guerra così impietosamente da farci venire il dubbio che sia la perfida Albione (eccellente diplomazia, oggi giorno!) ad avercelo aizzato contro, in particolare perché sappiamo che da sempre nutre per quell’isola sprezzante un rispetto che a noi non è dato ricevere. Vi chiediamo pertanto di essere così gentili da approvare una legge che richieda la chiusura di tutte le finestre, abbaini, lucernari, persiane interne ed esterne, tende, intelaiature, oblò, finestrelle, veneziane – in breve: ogni apertura, buco, fessura, fenditura attraverso cui la luce solare è solita entrare nelle case, a scapito delle oneste industrie con cui, e lo diciamo con orgoglio, abbiamo alimentato l’intero paese, un paese che oggi non può, senza tradire una certa ingratitudine, abbandonarci a una battaglia tanto ineguale”.
La richiesta, paradossale, procede poi con la risposta alle possibili obiezioni dei politici. Non potrete dire che sarebbe il consumatore a subirne il costo, dicono i fabbricanti di candele: “Fin quando proibite carbone, ferro e grano esteri, sarebbe davvero illogico lasciar passare la luce solare. Abbiamo la risposta pronta: non avete più il diritto di invocare l’interesse del consumatore. Lo avete già sacrificato ogni volta che il suo interesse era contrario a quello del produttore”. Né la politica può obiettare che la luce solare è gratuita, perché il basso costo dei prodotti provenienti dall’estero è proprio il principio che giustifica i dazi. “Se il fatto che un prodotto sia semi-esente da costi vi porta a escluderlo dalla concorrenza, come può il suo essere totalmente privo di costi portarvi ad ammetterlo alla concorrenza? O siete incoerenti oppure dovreste, dopo aver escluso come dannoso per l’industria nazionale ciò che è semi-esente dai costi, escludere ciò che è totalmente gratuito, con molta più ragionevolezza e il doppio dello zelo”.
Qualche decennio più tardi un grande sociologo ed economista, uno dei più influenti intellettuali italiani, dotato della stessa ironia e verve polemica, si esercitò in uno scritto analogo. Nel pieno della guerra commerciale tra il Regno d’Italia e la Francia, Vilfredo Pareto scrisse al Giornale degli economisti, la più prestigiosa rivista economica dell’epoca, la “Lettera d’un vignaiuolo”. Firmandosi “Nando detto Marzocco”, l’economista indossò i panni di un “vignaiuolo dell’Antella” (frazione dove viveva nel suo periodo fiorentino) che si fa beffe delle teorie dei grandi politici ed economisti dell’epoca che invocavano i dazi per proteggere l’industria nazionale. “Se al fabbricante dell’Appennino debbo pagare di più le sue sedie – protette dalle importazioni tedesche – non sarebbe giusto che anche egli pagasse un poco di più il mio vino? Ma che le viti sono forse da meno dei faggi?”, si chiedeva il vignaiuolo Pareto. Così, seguendo la stessa logica, Pareto lancia una proposta che è un po’ una bestemmia per la classe dirigente del nuovo stato unitario. “Si tratterebbe solo di ristabilire in Italia le dogane dei sette antichi Stati, e di colpire di un forte dazio, all’entrata in Toscana, i vini meridionali, che si ha la sfacciatagine d’importare sino a Firenze per fare concorrenza ai nostri vini toscani”. Pareto, spesso accusato di essere prigioniero della sua ideologia liberista, ironicamente invita i suoi interlocutori protezionisti a non essere “prigionieri della teoria dell’unità politica ed economica del paese”. D’altronde “se è vero che il cingersi di barriere doganali arricchì l’Italia – argomenta il vignaiuolo – perché il ristabilire le antiche dogane non gioverebbe alla Toscana? Come mai, contro ad ogni principio di sana logica, quello che è vero del tutto non sarebbe vero della parte? Se giova agli italiani di respingere il ferro inglese, perché non sarebbe utile ai toscani di respingere il vino delle Puglie? Ma si risponde, l’inglese è un forestiere e il pugliese un italiano. Ciò che fa? Sia qual si voglia la cagione della nostra rovina, non sarà meno vero che accadrà egualmente”.
Circa un secolo dopo, Friedman rese popolare in televisione nella serie “Free to chose” (pubblicata sui canali dell’Istituto Bruno Leoni con i sottotitoli in italiano) il racconto “Io, la matita”, ora rilanciato da Musk: è la storia in prima persona di una matita che narra la propria genealogia, attraverso cui l’autore Leonard Read spiega in maniera semplice la complessità che c’è dietro la produzione di un oggetto così semplice e che, grazie alla magia del libero scambio e del sistema dei prezzi, consente a persone e popoli sconosciuti di collaborare a beneficio di altri consumatori sconosciuti. “La lezione che ci tengo a trasmettervi è questa: lasciate libere le energie creative – dice la matita alla fine del racconto –. Limitatevi a organizzare la società affinché agisca in armonia con questa lezione. Fate in modo che l’apparato legale della società rimuova ogni ostacolo meglio che può. Permettete a questa conoscenza creativa di fluire liberamente”.
Una parte di questo meccanismo sorprendente che consente di sprigionare creatività e produttività è spiegata dalla teoria dei vantaggi comparati, che tutt’oggi risulta tanto vera quanto poco compresa. Nei giorni scorsi, il segretario al Commercio degli Stati Uniti, Howard Lutnick, per spiegare agli americani i benefici dei dazi imposti da Trump al resto del mondo, ha detto che presto si vedrà “un esercito di milioni e milioni di esseri umani che avvitano piccolissime viti per assemblare gli iPhone, quel tipo di lavoro arriverà in America”. Un modo di pensare che ricorda molto una visita di Milton Friedman in Cina, prima che il paese si aprisse al capitalismo con Deng Xiaoping, durante la quale l’economista rimase sorpreso nel vedere migliaia di operi scavare con le pale per realizzare un canale. Chiese al burocrate che lo accompagnava perché non facessero usare bulldozer o escavatori, e lui rispose: “Non capisci, questo è un programma per l’occupazione”. “Ah, pensavo che stessi cercando di costruire un canale – replicò Friedman –. Ma se vuoi più posti di lavoro, al posto della pale dovresti dargli i cucchiai!”.
Il paradosso è che, dopo mezzo secolo, la situazione sembra ribaltarsi. Nei giorni scorsi, per rispondere alla dannosità dei dazi americani, il ministero degli Esteri cinese ha diffuso il video di un discorso di Ronald Reagan, in cui l’allora presidente repubblicano degli Stati Uniti spiegava alla nazione quanto fossero dannosi i dazi e il protezionismo. Si vede che in questi decenni il Partito comunista cinese ha appreso la lezione di Ricardo, Bastiat, Pareto e Friedman che l’attuale classe dirigente statunitense ha dimenticato.