L’irresistibile richiamo della Parigi-Roubaix

Neppure Pogacar ha saputo resistere e dopo 10 anni anni torna sulle terribili pietre del Nord

L’amore è una dittatura dolcissima. L’amore è irrazionale, a volte lisergico. Tanto che ti puoi ritrovare a inseguire qualcuno fino a un ponte vicino a una fontana dove persone su cavalli a dondolo mangiano torte di marshmallow e tutti sorridono mentre passi oltre i fiori che crescono incredibilmente alti. E poco importa se si insegue Lucy dagli occhi a caleidoscopio oppure una pietra in sella a una bicicletta su strade antiche e senza asfalto, tra campagne di vuoto, polvere e orizzonti tutti uguali. Nessuno con un briciolo di razionalità può preferire stradine disperse nel nulla e coperte di pietre grandi come un volto di un bambino alla comodità dell’asfalto. La razionalità è di una noia mortale e la bicicletta ti fa entrare in una dimensione tutta sua, che è difficile da capire se non la si è provata. Una dolcissima dittatura. Un piccolo pezzo di carta umida sotto la lingua. Via.

La Parigi-Roubaix è una fuga dalla modernità, dalla comodità, dal raziocinio. La Parigi-Roubaix è una corsa dove si va soltanto se si hanno buone motivazioni, se si prova qualcosa di simile all’amore. È un po’ un’esigenza impellente, un po’ una fascinazione che stringe le budella, un po’ la volontà di confrontarsi con qualcosa di lontano: e con l’esotismo ci hanno campato per secoli un sacco di ottimi scrittori e registi.

Alla Parigi-Roubaix si riesce a perdonare tutto: le pietre che scuotono chiappe, schiena e spalle, che segnano di vesciche le mani e sembrano fratturare i polsi; la polvere, se c’è il sole, che rende la bocca un orto appena zappato e asciuga gli occhi che viene male a chiuderli; il fango, se piove, che ti trasforma in statua di creta, ti tira la faccia come nemmeno alle terme e ti fa prendere un chilo; i dolori dei giorni dopo; l’incazzatura di uno pneumatico che s’affloscia quando non dovrebbe (e poco male che non dovrebbe mai).

Se non si riesce a perdonarle tutto poco male. Semplicemente non è la corsa giusta, ci si può sempre non andare. Se non si riesce a perdonarle tutto, c’è un mondo intero di corse, 364 giorni l’anno nelle quali poter trovare quella giusta. Andate via da lì, dalle pietre, lasciatele a chi le sogna, le vuole.

La Parigi-Roubaix è un altrove ciclistico. È un mondo nel quale Ginger Rogers veniva prima di Fred Astaire perché vuoi mettere quanto è più difficile ballare all’indietro e sui tacchi alti. Un mondo nel quale ha vinto Nikola Tesla e non Thomas Edison. Per questo che sul velodromo di Roubaix a volte arrivano prima quelli che nelle altre parti del mondo, in quasi tutti le altre parti del mondo, fanno i gregari.

E succede questo perché la Parigi-Roubaix è puro amore ciclistico, l’unica corsa nella quale non prevale la violenza, la sopraffazione, del ciclista alpha, ma la capacità del ciclista beta (coupé – il copyright è di Aldo Ballerini) di lasciar fare alla bicicletta, assecondarla in tutto e per tutto, perché come diceva un altro Ballerini, Franco Ballerini, ciclista, “sulle pietre della Roubaix la bicicletta sa dove andare, basta lasciarla andare e pedalare”.

Certo a volte i ciclisti beta (coupé) da Roubaix corrispondono a quelli alpha di tutte le altre corse. Ma a Roubaix lasciano la violenza a pedali e si fanno rispettosi delle pietre. Anche loro assecondano la bicicletta, non hanno la pretesa di essere più bravi di lei.

Un anno fa, al termine di una corsa polverosa, dura, sconquassante, le uniche mani prive di vesciche, o di sangue o di escoriazioni erano quelle del vincitore: Mathieu van der Poel. L’olandese aveva perfezionato l’arte del galleggiamento sulle pietre, la capacità di diventare tutt’uno con il pavé sino a tal punto di non sentire le distanze tra i diversi blocchi di porfido. Un’arte che sono capaci di esprimere in pochi, difficile da trovare come certi tesori dei pirati.

È un’arte, quindi si impara, serve tempo, ma viene da dentro.

Tadej Pogacar da Roubaix, dalla Parigi-Roubaix e da tutto quello che c’è attorno è stato attratto che era un ragazzino alle prime armi con il ciclismo.

Era la Parigi- Roubaix juniores, era il 2015, era di aprile, il 12. Domenica saranno esattamente dieci anni fa e un giorno. Domenica correrà la sua prima Parigi-Roubaix da professionista domenica 13 aprile 2025.


Quel 12 di aprile del 2015 Tadej Pogacar fece il debutto sulle pietre del nord della Francia. Finì trentesimo su sessantatré arrivati. Ma arrivò. Uno scricciolo di ragazzino tra gente ben più grande e ben più grossa di lui.

Quel giorno si promise di ritornare, di rivedere quei luoghi capaci di fargli dire che una corsa così non l’aveva mai fatta. Sorrideva felice e spensierato, si guardava intorno alla maniera di chi non è sicuro di saper distinguere il reale dall’onirico.

Poteva aspettare ancora. Volevano farlo aspettare ancora. Lui ha preferito dare ascolto a ciò che gli diceva l’inconscio e non la coscienziosa cautela di tecnici e datori di stipendio che vedevano i contro e non i pro. Ha puntato sull’ottimismo, Tadej Pogacar, pronto a capire subito qual è il segreto delle mani intonse di Mathieu van der Poel. Ha scelto l’irrazionalità dell’amore, quello vero, quello che sussurra pavé alle orecchie dei corridori.

Quel sussurro che ha sentito anche Filippo Ganna, quel sussurro al quale si è voluto abbandonare totalmente almeno per una volta. Abbandonando pure gli amati velodromi, quelli con la pista in legno, al coperto, lunga 250 metri, pur di arrivare per primo in quell’altro velodromo, quello con la pista in cemento, esposta al vento alla pioggia e alla neve, lunga cinquecento metri. Lì dove chi supera per primo la linea d’arrivo vince non un campionato europeo o del mondo, ma il campionato intergalattico di corsa sulle pietre, la Parigi-Roubaix.

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