Ogni motivo è buono per contestare un presidente o un tecnico. Per poi cambiare subito idea. E’ in questo clima avvelenato che tutti gli allenatori, giocatori e dirigenti devono barcamenarsi
Nel momento in cui persino Fabrizio Corsi, l’uomo che dal 1991 si barcamena alla guida dell’Empoli con grande ingegno e mezzi economici ben lontani da quelli dei club di vertice, si è dovuto arrendere all’amarezza della contestazione, è parso evidente a tutti che il nostro calcio è probabilmente il più isterico del mondo. “Sono quindici anni che facciamo Serie A e Serie B, mi piacerebbe che vedessero le squadre di provincia che ci sono qui intorno: sono dispiaciuto, questi fischi sono una cosa anomala per Empoli. Noi non siamo in grado di fare certi investimenti, ma secondo me alla fine ce la possiamo fare lo stesso a raggiungere la salvezza. Poi se qualcuno pensa che si possa vincere la Coppa credo che debba cambiare squadra”, ha detto dopo un pareggio interno con il Cagliari arrivato al termine di un ciclo particolarmente negativo in campionato ma con la squadra in semifinale di Coppa Italia, pur con un piede e mezzo fuori dopo lo 0-3 col Bologna. Una condizione per cui a inizio anno probabilmente i tifosi avrebbero firmato con il sangue.
In Italia la contestazione è diventata prassi, rituale, forma d’arte. Si contesta per partito preso, per convinzione, in alcuni casi, forse, per noia. Si contesta Simone Inzaghi per i cambi fatti a Parma, salvo dover fare i conti tre giorni dopo con la prestazione vincente dell’Inter a Monaco di Baviera; si contesta Aurelio De Laurentiis perché non ha sostituito degnamente Kvaratskhelia; si contesta Gasperini perché l’Atalanta ha perso contatto col treno dello scudetto. E questo solo per rimanere alle prime tre posizioni. Esistono ancora piccole oasi di felicità: la luna di miele tra Bologna e Vincenzo Italiano prosegue (e ci mancherebbe altro), nessuno sembrerebbe avercela col buon Kosta Runjaic a Udine o con Patrick Vieira a Genova, figuriamoci se si può dire qualcosa sulla proprietà del Como visti gli sforzi che sta facendo. Per il resto, è il trionfo degli scontenti. La Juventus sta cercando di portare in fondo una stagione vissuta all’interno di un frullatore, con Thiago Motta trattato prima da re e poi da mentecatto, e l’impressione è che se non fosse arrivato un allenatore di forte matrice juventina come Igor Tudor le cose sarebbero andate peggio in termini di contestazione.
I laziali non vogliono Lotito (e qualcuno ha provato a mettere nel calderone anche il malcapitato Marco Baroni) e i romanisti guardano ancora con scetticismo un certo modo di intendere il calcio dei Friedkin; i tifosi della Fiorentina hanno chiesto per settimane la testa di Raffaele Palladino, reo ai loro occhi di offrire un calcio poco spettacolare; quelli del Milan sono in sacrosanta ebollizione da mesi per una stagione che ha vissuto momenti surreali e sta proseguendo su questa scia con la vicenda Paratici; Paolo Zanetti ha praticamente condotto alla salvezza il Verona ma tre mesi fa era un dead man walking, salvato da un esonero che pareva ormai cosa fatta; anche a Giulini, patron del Cagliari, c’è chi rimprovera una eccessiva prudenza, la mancata voglia di fare il salto di qualità. L’ultima domenica di campionato ha visto anche la contestazione nei confronti della proprietà del Lecce, che se finisse oggi il campionato sarebbe salvo nonostante un monte ingaggi ampiamente sotto controllo per evitare di fare il passo più lungo della gamba e una rosa che ogni anno viene smontata, tra prestiti che si concludono e cessioni eccellenti per dare fiato alle casse. Magari, a criticare, sono gli stessi che poi rimangono sbigottiti quando in Serie C troviamo squadre che saltano in aria come il tappo dello spumante la notte dell’ultimo dell’anno dopo mesi di acrobazie finanziarie.
Del resto, siamo il calcio che ha masticato e sputato via Luis Enrique, trattato come l’ultimo degli imbecilli a Roma; che ha immalinconito Dennis Bergkamp e stritolato Thierry Henry e Patrick Vieira, salvo poter poi riabbracciare almeno il centrocampista, oggi tecnico del Genoa, nella sua fase finale di carriera tra Juventus e Inter. Un nervosismo che attraversa tutto il movimento, che si riflette pure in alcune scene grottesche di campo, come in quello spaccato di Milan-Fiorentina in cui il capitano viola Ranieri segnala all’arbitro che c’è Leão che lo sta applaudendo in maniera sarcastica pur di lucrare un cartellino giallo, neanche fossero all’asilo col grembiule. È in questo clima avvelenato che allenatori, giocatori e dirigenti devono barcamenarsi, cercando almeno di illudersi della possibilità di portare avanti un progetto che duri più di qualche mese: avere un anno, magari due, è troppo spesso una pia illusione. Alla fine, a salvare la pelle, è chi riesce a dribblare meglio l’isteria.