Intervista al poeta, regista teatrale e tra i massimi grecisti viventi: “Chi domina il pianeta non ha alcuna formazione interiore, ma esprime una risibile accozzaglia di sociologismo e machiavellismo, portatrice di egoismi individuali e di cieca volontà di potenza”
Non occorre essere fisionomisti arguti per indovinare a prima vista, incontrando Angelo Tonelli, i suoi interessi e la sua personalità. Nato a Lerici settantun anni fa, l’età lo asseconda, evocando nella fluente chioma argentea e nella barba proprio i sapienti antichi che coltiva dalla gioventù. Poeta, regista teatrale, allievo di Giorgio Colli, ha tradotto in italiano i maggiori pensatori presocratici nonché tutte le tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide per Bompiani. A “Pitagora, il Maestro segreto” ha dedicato l’ultima monografia pubblicata da Feltrinelli a marzo scorso, in cui torna a indagare i “sotterranei legami tra l’Occidente e l’Oriente”.
Non teme i rischi del sincretismo?
Più che alle differenze sono attento alle convergenze sapienziali che accomunano tante diverse tradizioni, da quella greca a quella sufi allo sciamanesimo anche sudamericano. D’altronde le somiglianze tra Eraclito e il taoismo, tra Parmenide e le Upanishad sono innegabili.
Perché ora Pitagora?
Per la sua clamorosa attualità. Prima di tutto perché sviluppò un rapporto di stretta unione tra scienza, natura e misticismo che oggi è prezioso recuperare al cospetto della deriva transumanista. In secondo luogo per la sua visione politica, a fronte di un mondo che pare sempre più in mano ai protervi e agli imbecilli, cioè privi del “baculum”, il bastone spirituale. Chi domina il Pianeta non ha alcuna formazione interiore, ma esprime piuttosto una risibile accozzaglia di sociologismo e machiavellismo, portatrice di egoismi individuali e di cieca volontà di potenza. I pitagorici non amministravano soltanto la propria città interiore ma quella politica, contrastando con la Philìa, ossia con l’amicizia e la solidarietà, le pulsioni umane più nocive.
Cosa ha determinato, se è così, la prevalenza di “protervi e imbecilli”?
C’è una sorta di culminazione di cause. La separazione progressiva della politica dalla sapienza e dall’etica, assieme alla diffusione di certi strumenti mediatici, ha reso più capillare e quindi più facile l’affermazione di talune figure. Un tempo, se non altro, c’erano i programmi di partito che costituivano una sorta di prospetto karmico delle azioni sulla società. Ora manca la consapevolezza verso le esigenze vere dell’umanità: pace, solidarietà, tutela della salute collettiva, dignità della cultura, equilibrio rispettoso tra tecnica e natura. Si assiste a un tripudio della Hybris, una tracotanza che ripropone l’attualità del mito di Prometeo.
Quale splendida utopia è pensare ai leader nazionali che si mettono a leggere Pitagora.
Curare gli strumenti della sapienza non farebbe bene solo ai politici. Meditare e praticare nel silenzio della sera, prima di addormentarsi, un’anamnesi della giornata. È un’utopia, ovviamente, ma l’importante è che pensieri simili circolino almeno tra chi ha la sensibilità di coltivarli, come isole di luce anche se minoritarie. In Italia poi disporremmo di un grande Dna sapienziale, perché abbiamo beneficiato della presenza di Parmenide, Pitagora, Empedocle, malgrado la castrazione noetica favorita dai media, dalle scuole e dalle università ne abbia sepolto le tracce.
Ci sarebbe anche il Dna della Chiesa cattolica.
La Chiesa mi pare venuta meno alla missione primaria di Cristo: l’unione con il divino. Non sembra più la sua funzione fondamentale, mentre il credente è deresponsabilizzato perché ritiene di salvarsi con la confessione, con la messa e con un’etica bella ma posticcia. Gli strumenti per non uccidere non s’impartiscono così, vanno formati nell’anima.
È un pessimista integrale?
Non del tutto. Quando parlo dei sapienti greci ai giovani noto che sono molto sensibili, anche negli incontri che ho tenuto nelle scuole statunitensi, perché hanno sete di orientarsi in una vita sempre più veloce e complicata. Dobbiamo evitare che l’ipertrofia raziotecnica li trasformi in schizantropi annientando le funzioni animiche. Però non ho un atteggiamento talebano: la tecnologia è importante purché non contrasti con la natura e con la nostra anima.
Può indicare, da grecista, le sue parole più importanti?
Noûs, Lógos e Physis, che sono in verità tutte intraducibili. Noûs è il Sé profondo, la dimensione illuminata: tradurlo come intelletto lo mentalizzerebbe, poiché va oltre la mente. Lógos non è un equivalente di ragionamento ma è più vicino al Tao della filosofia cinese, altrimenti si finirebbe per rafforzare l’iper-razionalismo. Physis infine non è solo natura naturata, manifesta, ma la natura naturans, il mistero radicato nel profondo del cosmo, l’ascolto costante dell’assoluto. Se interpretiamo male o tralasciamo questi tre termini, che hanno condizionato l’umanità, ne perdiamo anche i concetti. Vanno via con le parole.
Quanto deve a Giorgio Colli?
È stato l’incontro fondamentale della mia vita. Ho proseguito la ricerca sulle basi della sua, approfondendo maggiormente l’attenzione per l’Oriente. Fu un maestro di enorme carisma. Al primo approccio poteva risultare urticante per certi modi da aristocratico torinese, ma le sue lezioni coinvolgevano chiunque vi assistesse. Un uomo anomalo ed eccezionale, che a quindici anni aveva già chiaro il suo sistema filosofico.
Oltre ai sapienti greci quali letture suggerisce?
Se dovessi indicare solo tre libri direi i “Canti Orfici” di Dino Campana, “Essere pace” di Thich Nhat Hanh e “Filosofia dell’espressione” di Colli.