“What’s with Baum?. “Il primo romanzo del regista newyorkese e quelle assonanze con lo scrittore
Non riesco ancora a capire la logica per cui l’8 giugno del 2017 Woody Allen sia stato accolto da una standing ovation dall’American Film Institute, e poi, quattro mesi più tardi, sia diventato un reietto per le stesse personalità che lo applaudivano, e, nel giro di pochi giorni, per tutta l’industria cinematografica ed editoriale. Tra le due date non è avvenuto nulla di penalmente o moralmente significativo, ma il 5 ottobre 2017 è stata pubblicata l’inchiesta del New York Times che ha portato alla condanna di Harvey Weinstein e alla nascita del movimento #MeToo, ed è uscito quindi sul New Yorker l’articolo con cui Ronan Farrow rilanciava le accuse della madre Mia, secondo cui Allen aveva abusato nel 1992 della figlia Dylan, all’epoca di soli sette anni. Il regista ha sempre negato ogni accusa, appellandosi anche lui alla logica: “Come si può immaginare che nel pieno della rottura traumatica con Mia, con la stampa planetaria che non parlava d’altro, io non abbia trovato di meglio che andare nella sua casa in Connecticut e abusare di nostra figlia?”.
“It’s getting ugly”, aveva titolato in quei giorni il New York Post, e non c’era salotto che non parlasse dello scandalo, nato dopo che Mia Farrow aveva scoperto alcune foto erotiche della figliastra Soon-Yi scattate da Allen. In quel periodo però l’intelligentsia newyorkese era ancora divisa a metà: un primo gruppo, capeggiato da Barbara Walters, ricordava che la relazione con la figliastra non aveva alcuna rilevanza penale e sosteneva che l’accusa di pedofilia fosse frutto dell’odio eterno della donna tradita: era quello che aveva dichiarato anche un altro figlio adottivo, Moses. Il secondo, che annoverava persino Philip Roth, citava la testimonianza della stessa Dylan e ricordava Manhattan, con protagonista un uomo di mezza età che ha una relazione con una minorenne. All’epoca la vicenda venne chiusa con due sentenze a favore di Allen, e il giudice arrivò a redarguire Mia Farrow per aver aizzato i figli contro il padre. A 25 anni di distanza, l’articolo di Satchel Farrow, ribattezzato Ronan dopo che l’attrice aveva dichiarato che era figlio di Frank Sinatra, non aggiungeva nulla di nuovo, ma dal giorno della pubblicazione Allen è diventato un paria dei salotti newyorkesi e “veleno” per l’industria cinematografica. Nelle rare volte in cui ormai mi capita di incrociarlo mi appare chiaro che è un errore cercare una logica nel modo in cui è cambiato l’atteggiamento nei suoi confronti: l’ostracismo, ormai generale, appartiene alla categoria della furia moralista, dell’opportunismo e dell’ipocrisia. Come altro si potrebbe giudicare ad esempio Timothée Chalamet, che ha devoluto il salario avuto per Un giorno di pioggia a New York a un fondo per le vittime di violenza sessuale? Intendiamoci, l’abbandono di Allen della compagna per la figliastra è a dir poco disdicevole, ma i due stanno insieme da più di trenta anni e hanno adottato due bambine, a testimonianza del fatto che si tratta di un vero amore. E se è vero che sono molte le personalità che si sono macchiate di reati odiosi e gravissimi, l’ondata generata dal #MeToo ha travolto anche chi, come lui, è stato assolto da accuse infamanti. Da quando è diventato un paria, rischia a sua volta l’ostracizzazione anche chi lo frequenta, e a New York soltanto Adam Gopnik riesce nel miracolo di essere tuttora amico sia del regista che di Mia Farrow, la quale ha raccolto intorno a sé un gruppo di fedelissimi, indignati da quanto ha decretato la giustizia.
All’epoca, Philip Roth non si era mai schierato pubblicamente, ma in privato i suoi giudizi sul regista erano severissimi: “Non ne ho alcuna stima” mi disse una volta. Avevano troppi elementi in comune, questi due meravigliosi artisti, a cominciare dalla stessa età, la relazione conflittuale con la tradizione ebraica, il retroterra sociale, la negazione di ogni trascendenza, il pessimismo cosmico, la battuta geniale, la diffidenza per i salotti, e infine – elemento fondamentale – l’intimo rapporto con Mia Farrow. Erano insomma gli artisti ebrei più celebri e ammirati del mondo, e posso solo immaginare cosa direbbe Roth del debutto di Allen nel romanzo con What’s with Baum? su “un intellettuale paralizzato da preoccupazioni nevrotiche sulla futilità e la vacuità della vita”. Nulla di diverso dal protagonista di Manhattan, ma senza il sorriso della minorenne Tracy (Mariel Hemingway) che dava senso alla sua intera esistenza.
Un ennesimo alter ego di Allen che, come Nathan Zuckerman di Roth, è sull’orlo dell’esaurimento nervoso: scaricato dal suo editore comincia a parlare da solo, convinto che il fratello abbia sedotto la sua terza moglie, e tenta di baciare una giornalista che lo stava intervistando, una shiksa come le donne bionde e non ebree che turbavano Alexander Portnoy. Asher Baum è ancora una volta uno schlemiel, l’ebreo goffo e inadeguato, che nelle precedenti impersonificazioni ha contrastato il dolore di vivere con battute folgoranti: “Ogni volta che ascolto Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”, “La vita non imita l’arte, ma la cattiva televisione” o “Non conosco la domanda, ma il sesso è certamente la risposta”. Specie quest’ultima potrebbe essere una battuta di Roth, i cui personaggi tuttavia finivano per soccombere di fronte all’avvento implacabile del disincanto quotidiano. Allen ha opposto invece la celebrazione di una New York da sogno e la fuga nelle champagne comedies, i film in cui tutto è elegante e perfetto: è paradossale che nella Rosa purpurea del Cairo sia proprio Mia Farrow a vivere l’emozione di farne parte, almeno per qualche ora. Come è paradossale che in Manhattan Allen citi proprio Frank Sinatra tra i motivi per cui vale la pena vivere.
Se negli ultimi anni della sua vita Roth ha deciso serenamente di negarsi al mondo, vivendo con una punta di amarezza il Nobel negato per le grottesche accuse di misoginia e antisemitismo, Allen vive ormai da recluso nella sua casa dell’Upper East Side: “La vita è piena di dolore, solitudine e sofferenza, ma è sempre troppo breve” continua a credere, e si è commosso sapendo che Martin Scorsese, sfidando il gelo del pubblico, ha risposto con il suo nome quando gli ho chiesto chi fosse il più grande e imprescindibile regista newyorkese.