Dall’ultimo giorno dell’umanità alla storia che ripete se stessa ma poi si autocorregge. Una nuova raccolta di racconti brevi attraversa con piglio la lieta dissacrazione della vita e della morte
Morte, disperazione e paradosso, ma ridendosela. Etgar Keret in sintesi. “Quando metto le scene nero su bianco”, ha dichiarato in un’intervista del 2010, “sono felice perché posso evitare la rogna di viverle”. O la rogna di morirne. Bene, perché anche la sua nuova raccolta di racconti brevi, Correzione automatica (Feltrinelli, 152 pp., 15,20 euro), attraversa con piglio questa lieta dissacrazione della vita e della morte – e la copertina, in questo senso, ce la racconta giusta, infatti raffigura un pappagallino posato su una bomba a mano, con la spoletta nel becco.
“In tutte le tue storie i papà sono o stupidi o morti”, ha commentato un giorno il padre dell’autore all’autore medesimo. E sua moglie (Shira Geffen, attrice, sceneggiatrice, regista) un giorno ha osservato, guardandolo di sguincio: “Nei racconti ti occupi sempre di tradimenti e divorzi, come mai?”.
Ottime osservazioni. E già che ci siamo, mani avanti e pattuiamo che sì, d’accordo, ci tocca chiamarli “racconti” questi blitz di poche pagine che si intrufolano con destrezza e sgattaiolano via ben prima che tu ti renda conto che ti hanno tagliato la strada scompigliando l’ordine apparente. Ma in realtà sono qualcosa di più. Anzi, sono molto di più – un balzo, un barbaglio, uno scatto per lanciarsi a rotta di collo dentro un burrone. Sono racconti che allargano il mondo e ne inventano un altro, sovrascritto al nostro, in inchiostro simpatico. Lo fanno con spericolatezza, velocità e inventiva, la firma di Keret e, a conti fatti, la ragione per cui lo si legge come si mangiano le ciliegie: ogni suo racconto è una botola perfettamente mimetizzata nella realtà fino al momento in cui il coup de théâtre keretiano la spalanca e a quel punto è inevitabile, in chi legge, sentir nascere una sincera ovazione per lui che l’ha vista, quella botola – perché tu no, eppure era lì, è sempre stata lì. Tutto questo, pescando a piene mani in quello che una volta si chiamava pop, dimenandosi felicemente tra filosofia e videogiochi, reinterpretando con acume l’attualità del suo paese, tenendo sempre le mani in pasta (quella dell’esistenza quotidiana) e trasformando ogni racconto in un’istruzione-lampo per l’uso di ciò che non hai mai pensato, ma avresti dovuto.
In quest’ultima raccolta, il racconto “Genesi, capitolo 0” è un ottimo esempio di cosa Keret riesce a fare con la vita, la sua e quella di tutti; oppure “Olive, o il blues della fine del mondo”, racconto dell’ultimo giorno dell’umanità e del protagonista di una storia che lo vede consumare le ore finali guardando una telenovela argentina alla quattrocentotrentaseiesima puntata in cui i personaggi “sono belli, passionali e urlano in spagnolo”. Sorprendente anche la variazione sul tema di “Correzione automatica”, una storia che ripete se stessa ma poi no, si autocorregge, svelando altre esistenze possibili scritte in filigrana e lasciandoci col dubbio di essere qui per vivere solo un’eventualità su tutte quelle che potrebbero avverarsi in noi.
Keret, infatti, imbroglia. E lo fa benissimo. E riesce a evocare il dubbio circa il grado di realtà di ciò che viviamo – a volte, perfino del grado di verità, come nel bellissimo “Un mondo senza bastoncini per i selfie”, la storia di una donna che il protagonista è sicuro di conoscere (è l’ex fidanzata) ma scoprirà in realtà non trattarsi di lei, che porta sì il nome Deborah ma è un’altra, identica o quasi, catapultata qui da un mondo parallelo in qualità di concorrente di un programma tv intitolato “La piccola differenza”, in cui i partecipanti vengono spediti in mondi limitrofi in cui tutti gli elementi sono identici a quello di provenienza tranne uno, da trovare per vincere. Leggerlo per capire cosa significhi, da lettore, sentirsi in caduta libera.
Ma poi Keret viene a salvarti, col suo tono ormai inconfondibile e col suo amore smaliziato per l’umanità. Perché – come scrive in un racconto – “siamo prigionieri che, dopo aver scavato un tunnel, si accorgono di essere sbucati nel cortile della prigione”. E siamo parte di una gigantesca ferita umana che sanguina. Ma dopo un naufragio su un’isola deserta ci mangeremmo l’un l’altro. L’interrogativo etico sarebbe: da quale parte si comincia?