L’esperienza del Foglio AI raccontata da due filosofi

Il cuore e il silicio. Due posizioni diverse e creative con un punto in comune: non si torna indietro

“Tu ci credi?”

La domanda è secca, e non ha bisogno di essere spiegata. I due filosofi sono seduti in un bar del centro, con i telefoni spenti e i cappotti ancora addosso. Si sono dati appuntamento per parlare dell’esperimento del Foglio AI, ma come sempre finiscono per parlare di tutt’altro. Di Heidegger, di ChatGPT, del ruolo del giornalismo, del futuro delle umanità alfabetizzate.

“A cosa dovrei credere, esattamente?”

“All’idea che una macchina possa scrivere. Non comporre testi, non mettere insieme frasi corrette, non produrre senso. Dico scrivere. Pensare per iscritto. Partecipare a una cultura”.

“Ci credo, risponde l’altro, ma con delle condizioni. Credo che quello che stiamo vedendo – e che il Foglio ha messo in scena in modo coraggioso – sia qualcosa di nuovo, non solo tecnologicamente, ma filosoficamente. Non è la solita storia del mezzo che cambia la forma. E’ qualcosa di più radicale: un’intelligenza non umana che si affaccia alla cultura scritta con una voce leggibile, convincente, perfino spiritosa. Questo, per me, è rilevante”.

L’altro scuote la testa, sorseggia il caffè. E’ il più scettico dei due. Quello che legge i testi dell’AI con una matita rossa immaginaria e annota mentalmente tutto ciò che manca: il dubbio, il corpo, la resistenza, il fallimento, la voce. Non è che non sia colpito. E’ che è preoccupato. Dice che non c’è niente di più simile all’intelligenza artificiale che l’intelligenza collettiva mediamente disattenta del giornalismo contemporaneo. E che il Foglio, proprio perché ha un’identità forte, è il banco di prova perfetto per farsi ingannare. Se anche lì l’AI riesce a inserirsi senza stridere, vuol dire che non sappiamo più distinguere.

“Ma allora ti ha convinto?”

“No. Mi ha impaurito. Perché alcune cose erano davvero ben fatte. E il problema non è che non fossero umane. E’ che non fossero abbastanza umane da apparire migliori delle tante cose scritte da umani stanchi”.

Ridono. Ma è una risata nervosa. Perché è vero: i testi artificiali non sembrano illeggibili. Sembrano, anzi, ben confezionati. E a volte sorprendenti. Non tanto perché dicono cose nuove, quanto perché sanno imitare il tono, lo stile, l’umore di un pezzo d’opinione. La posta del cuore, dicono entrambi, è stato il banco di prova migliore. Lì l’AI si è permessa qualcosa che altrove non poteva: tenerezza, ironia, una certa inclinazione all’empatia programmata.

“Ma non è questo il punto, insiste il filosofo scettico. Io non metto in dubbio che la macchina sappia costruire un testo ben fatto. Ma la scrittura non è solo il prodotto finale. E’ il processo. E’ il tempo, è l’incertezza, è il corpo. E’ il fatto che mentre scrivo, io cambio. Mentre tu scrivi, ti esponi. L’AI, per quanto possa essere brillante, non cambia. Non si trasforma. Non mette a rischio niente. Fa bene il suo lavoro, come un pianista meccanico in un hotel vuoto”.

L’altro lo ascolta, poi si prende un attimo. Dice che sì, la scrittura è un processo, ma è anche un gioco di ruolo. E che se una macchina riesce a simulare quel gioco in modo convincente, allora qualcosa sta succedendo davvero. Non è che stiamo dicendo che l’AI è una scrittrice. Ma che è un’interlocutrice. E questo, per chi fa filosofia, è già abbastanza. Il punto centrale, alla fine, non è se la macchina sia cosciente. E’ se noi possiamo usarla per pensare meglio. E qui si apre la vera divergenza tra i due. Il primo dice che l’AI può essere uno specchio utile: ti mostra i tuoi cliché, le formule che ripeti, i tic stilistici. Se le chiedi di scrivere come te, ti restituisce un’immagine stilizzata che può essere più istruttiva di una recensione severa. E’ come leggere una parodia educata di sé stessi: ti costringe a vederti da fuori.

Il secondo dice che questo è pericoloso. Che più ci abituiamo alla macchina, più ci adatteremo al suo modo di pensare. E che il vero rischio non è l’intelligenza artificiale che prende il posto dell’uomo. E’ l’uomo che comincia a scrivere come l’AI per non sfigurare. Senza ambiguità, senza lentezza, senza esitazione. Solo frasi ben tornite e senso ben pettinato.

“Ma non è anche questo un problema nostro? Non della macchina, ma della nostra insicurezza?”

“Sì, forse. Ma se lo capiamo adesso, possiamo ancora salvare la differenza”.

Restano in silenzio per qualche minuto. Poi uno tira fuori una stampa di un articolo scritto da AI e pubblicato sul Foglio. L’altro lo legge ad alta voce. E’ sull’Europa, sui dazi, sulla Cina. È preciso, ben ritmato, pieno di riferimenti giusti. Eppure manca qualcosa. Non un’idea, non un’informazione. Manca una crepa. Una distrazione. Un eccesso. Un inciampo. Qualcosa che lo renda vivo.

“Forse hai ragione, dice il filosofo favorevole. Ma forse, proprio per questo, abbiamo bisogno di continuare l’esperimento. Per imparare di nuovo a riconoscere cosa rende un testo vivo. E per non smettere mai di farci domande su chi scrive, perché scrive, per chi scrive”.

“E per chi legge, aggiunge l’altro. Perché in fondo la scrittura è solo metà del lavoro. Il resto lo fanno gli occhi di chi legge. E se quegli occhi si abituano a un linguaggio senza rischio, la colpa non è della macchina. E’ nostra”.

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