Trump cerca già di schiantare il sussulto dei repubblicani al Congresso contro i dazi

Il presidente attacca i membri del suo stesso partito che contestano la sua politica commerciale. Cresce il dissenso interno sulle misure protezionistiche della Casa bianca

Non sarete certo voi a dirmi come devo negoziare, ha dichiarato Donald Trump dal palco del National Republican Congress Committee, indicando il pubblico davanti a lui, forse qualcuno in particolare (lui di certo lo sa) tra i deputati e i senatori del suo stesso partito che lo stavano ascoltando. Non illudetevi, ha continuato il presidente americano, come negozio io non negozia nessuno, “ho visto oggi un paio di voi che dicevano di voler essere coinvolti nella gestione dei negoziati sui dazi, e sì, è proprio ciò di cui ho bisogno – ha detto sprezzante – qualcuno che mi dica come devo negoziare”. C’è stato silenzio nel pubblico, forse il guizzo di inusuale coraggio dei repubblicani al Congresso si è spento lì, con il dito inquisitorio di Trump puntato in faccia, o forse no.

Il presidente questa volta ha varcato la soglia del dissenso persino di un partito tanto addomesticato come quello conservatore: le divisioni non ci sono soltanto tra i funzionari dell’Amministrazione, imperterriti nel sostenere i dazi che stanno travolgendo i mercati e le previsioni di crescita, e i miliardari che mantengono la “coalizione Trump”, come dimostrano gli insulti di Elon Musk a uno dei “mister dazi”, Peter Navarro; non ci sono soltanto tra i commentatori, i media e i centri studi che pure hanno sostenuto finora il trumpismo ma considerano inutilmente punitiva la strategia dei dazi (la cosa “più idiota” di sempre, l’ha definita il Wall Street Journal, quotidiano conservatore straordinariamente critico su questa politica); le divisioni ci sono anche al Congresso, dove si sono ritrovati, dopo purghe, liti, dimissioni e cannibalismi di varia intensità, i deputati e i senatori più fedeli e più accondiscendenti. Si tratta ancora di numeri piccoli e l’ostilità di Trump è già molto grande, ma i dissidenti sono molto motivati: gli stati che rappresentano mandano messaggi chiari di insofferenza nei confronti di questo depauperamento che sembra tanto rapido quanto non necessario. C’è quindi una ragione che ha a che fare con il proprio seggio e con la propria rielezione, poi c’è una questione più ampia: questa Amministrazione sta logorando il bilanciamento dei poteri della democrazia americana, con un accentramento nell’esecutivo a detrimento del legislativo. Se la politica dei dazi sembra una fissazione di Trump – un po’ lo è, ma non del tutto – il rafforzamento del potere dell’Amministrazione ai danni del Congresso è un piano ben preciso del trumpismo, che vuole scardinare l’equilibrio su cui si fonda la repubblica americana.

Al Senato, già all’inizio di questa settimana, quattro senatori avevano votato assieme ai democratici una legge che sospende i dazi imposti al Canada a febbraio. Alla Camera, almeno dieci repubblicani – ma secondo alcune fonti, sono molti di più, anche se Trump dice che sono i “fake media” ad alimentare questa frattura – vogliono votare una legge ideata sempre da un repubblicano, il deputato del Nebraska Don Bacon, che vuole impedire all’Amministrazione di imporre dazi in modo unilaterale, cioè senza l’approvazione del Congresso. Bacon ha dichiarato che la proposta di legge è cofermata anche da due deputati democratici – e ce n’è una simile al Senato – e prevede che i dazi scadano se non vengono approvati entro 60 giorni da quando sono stati introdotti per volere del governo. Una fonte anonima – anonima perché non vuole subire in questa fase preliminare la vendetta di Trump – ha detto al sito Axios che le reazioni locali, dagli stati di provenienza, sono univoche: i dazi sono un danno. Nessuno va di fretta, i deputati vogliono consultarsi con i rappresentanti dell’Amministrazione che si occupano di commercio, ma non vogliono nemmeno rimanere in silenzio: temono che i loro elettori non li perdonerebbero.

Trump ha già detto che metterà il veto a questa eventuale legge e sta già stilando la lista dei dissidenti. Il presidente non è più abituato ad avere intorno a sé persone che contestano le sue posizioni: questa è la grande differenza tra il primo e il secondo mandato. Nel libro “Paura” di Bob Woodward c’è il resoconto delle conversazioni tra il capo degli economisti della Casa Bianca del primo mandato, Gary Cohn, e lo stesso Trump. Vanno rilette tutte con attenzione, perché Cohn già allora era contrario ai dazi, e si dimise quando il presidente decise di introdurli. Cohn si presentava alle riunioni con molti numeri e molti documenti che spiegavano perché i dazi sono una tassa e quindi un problema per chi li introduce prima ancora che per chi li subisce. “Ma Trump restava inamovibile”, scrive Woodward, e alla domanda ricorrente di Cohn: perché vede le cose in questo modo?, rispondeva: perché sì.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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