Il presidente americano potrebbe rivendicare la “relazione speciale” tra Stati Uniti e Gran Bretagna, espressione inventata nel 1946 da Churchill. Sicuramente vorrebbe che Londra mantenesse le distanze sia da Parigi che da Berlino ma per ora il premier inglese ha intenzione di non sbilanciarsi nè da una parte nè dall’altra
La regola numero uno di ogni nuovo premier britannico quando parla di politica estera è del tutto chiara: qualsiasi altra cosa facciate o diciate, non dimenticate di sottolineare l’importanza della “relazione speciale” tra Gran Bretagna e Stati Uniti. E’ un rituale obbligatorio. Fu Churchill a inventare l’espressione “relazione speciale” nel 1946, nello stesso discorso in cui presentò al mondo l’idea di una “cortina di ferro” che divideva il continente europeo in due: l’est sotto il controllo sovietico e l’ovest libero (Churchill era, ovviamente, un genio assoluto nel creare frasi). La “relazione speciale” di Churchill consisteva nell’aspirazione a un’alleanza anglosassone che avrebbe unito la Gran Bretagna e l’America in una partnership che avrebbe definito e dominato l’ordine mondiale dopo il 1945. E così facendo avrebbe contribuito a sostenere una Gran Bretagna vittoriosa – ma esausta ed economicamente impoverita – come indubbia potenza mondiale. Ma Churchill, il maestro per eccellenza della retorica patriottica britannica, sapeva bene che il rapporto non era affatto paritario.
Gli inglesi hanno avuto a lungo bisogno degli americani molto più di quanto gli americani abbiano avuto bisogno degli inglesi. Quando Churchill divenne primo ministro, nel maggio del 1940, capì che non c’era alcuna speranza di vittoria contro i tedeschi senza gli americani. Così si impegnò, senza sosta, a persuadere Franklin Delano Roosevelt che gli americani dovevano entrare in guerra, anche se alla fine ci volle l’attacco giapponese a Pearl Harbour nel dicembre 1941 per determinare il loro ingresso. Si racconta che quando Churchill si recò a Washington, poco dopo Pearl Harbour, Roosevelt fu portato nelle stanze di Churchill e aspettò che Churchill uscisse dal bagno. Cosa che fece pochi minuti dopo, completamente nudo. Rossevelt sembrò scioccato. Churchill rispose: “Non si preoccupi, signor presidente, il primo ministro britannico non ha nulla da nascondere al presidente americano” – la manifestazione memorabile del desiderio britannico di avere relazioni più strette con l’America. In verità, ci furono alcuni significativi intoppi e problemi nelle relazioni belliche tra Roosevelt e Churchill – non ultimo quello di come gestire Stalin – ma il loro rapporto fu indubbiamente di enorme importanza. E la loro alleanza ebbe successo – in parte significativa a causa dell’arrivo dell’Unione sovietica sul campo di battaglia.
Per un certo periodo, dopo la guerra, i politici e diplomatici britannici, consapevoli del monumentale squilibrio di potere economico e militare tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, cercarono di consolarsi con l’idea che la lunga storia e l’esperienza della Gran Bretagna come potenza mondiale le avessero garantito intuizioni sofisticate, cesellate dall’esperienza, che agli americani mancavano. Saremmo stati il loro mentore. Si trattava di una visione estremamente ottimistica dell’utilità britannica, riassunta in un’altra frase churchilliana, anche se questa volta condita da un certo paternalismo: “Noi siamo i greci e loro (gli americani) sono i romani”. Ma Churchill nutriva davvero un’enorme ammirazione e affetto per le conquiste americane, e c’era anche un aspetto personale. Sua madre era nata a New York. La mossa più eclatante che fece nelle relazioni estere fu, di fatto, quella con la Francia, poche settimane dopo essere diventato primo ministro. Nel giugno del 1940, con la Francia sottoposta a un pesante attacco da parte delle forze hitleriane, propose una dichiarazione di intesa tra Gran Bretagna e Francia. Pensava che un’unione dei due paesi avrebbe aiutato i francesi in guerra. Il piano proponeva un unico governo e una cittadinanza comune. Ma era troppo tardi – i tedeschi stavano avanzando rapidamente, il disfattista maresciallo Petain non l’avrebbe accettata – e questa straordinaria idea morì. Così la Gran Bretagna finì per fare qualcosa di meno straordinario, ma comunque importante, ospitando a Londra il generale De Gaulle e la sua resistenza francese libera. Se il rapporto bellico di Churchill con Roosevelt fornisce una visione culturale e psicologica, oltre che politica, della visione britannica della “relazione speciale”, i suoi rapporti molto meno felici con De Gaulle ci aiutano a capire i tormenti del rapporto post bellico della Gran Bretagna con la Francia.
Churchill ammirava la sfida di De Gaulle, ma non molto altro. Trovò De Gaulle inflessibile e ostruzionista, riassumendo il tutto con un’altra frase pittoresca: “La croce più pesante che devo portare è la croce di Lorena” (la croce di Lorena era l’emblema delle forze francesi libere di De Gaulle). De Gaulle, da parte sua, si sentì sminuito dagli anglosassoni. Fu escluso dalle riunioni di pianificazione del D-Day, un affronto anglo-americano che non dimenticò. Nel 1945 l’idea di una relazione britannica particolarmente stretta con la Francia non era sul radar, né per Churchill né per il suo successore laburista, Clement Attlee. L’attenzione era rivolta altrove, e per ragioni abbastanza chiare. L’America era la potenza mondiale e noi volevamo essere il più vicini possibile. Da allora, l’alleanza britannico-americana è stata la costante della politica estera del Regno Unito. La sua attrazione gravitazionale è stata una delle ragioni per cui la Gran Bretagna ha scelto di rimanere fuori dal mercato comune negli anni Cinquanta. E – terribile ironia – la stretta relazione britannica con gli americani è stata la ragione per cui la Gran Bretagna non è riuscita a entrare nel mercato comune quando, nel 1961, un governo conservatore voleva che la Gran Bretagna vi aderisse. De Gaulle, ormai una figura dominante, pensava che i britannici fossero così legati all’America che non avrebbero mai potuto essere buoni europei. Così mise il veto all’adesione della Gran Bretagna, per ben due volte. Chiunque abbia un po’ di senso della storia deve aver sentito De Gaulle urlare, dall’oltretomba, “ve l’avevo detto”, quando nel 2016 i britannici hanno votato per la Brexit.
I francesi e gli inglesi godono di una percezione stereotipata l’uno dell’altro. Così i britannici sono visti da ogni cittadino francese che si rispetti come solidi, stoici, abbottonati, con un apparente amore per il cibo scadente, e al contrario i francesi sono visti e derisi, non sempre con affetto, come libertini inaffidabili, vulcanici e golosi. Ma in realtà Gran Bretagna e Francia hanno molto in comune. La loro popolazione è simile, le loro economie, pur configurate in modo un po’ diverso, hanno le stesse dimensioni. Entrambe sono ex potenze imperiali, entrambe hanno armi nucleari, entrambe sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, entrambe hanno una storia spettacolare e ricca come stati nazionali, ma hanno dovuto affrontare un relativo declino. La Gran Bretagna collabora da tempo con i francesi su questioni militari e di antiterrorismo, ma non se ne parla molto. E’ molto più comodo parlare della vicinanza con gli americani, dopo tutto parlano la stessa lingua (più o meno). Quando Liz Truss era in campagna elettorale per diventare premier nel 2022, le fu chiesto se il presidente francese Emmanuel Macron fosse “amico o nemico”. Lei rispose in modo stupido: “La giuria è là fuori”. Macron prese la palla al balzo affermando che il Regno Unito è “amico” della Francia a prescindere dai suoi leader (nel giro di pochi mesi Truss è sparita e ora è una fan sfegatata di Trump).
Keir Starmer non direbbe mai nulla di simile né indulgerebbe nelle buffonate sulla Francia che erano parte del mestiere di Boris Johnson. Invece sta cercando – come deve – di essere il migliore amico di Donald Trump e di Macron. Ripete più volte che non c’è bisogno di scegliere tra le relazioni strette con gli europei e quelle con gli americani. Continuamente fa riferimento alla “relazione speciale”, anche se, in privato, deve considerare Trump come una persona orribile. E ancora una volta parla della Gran Bretagna come di un “ponte” tra l’Europa e gli americani. E’ tutto ciò che può fare, ed è quel che gli ha garantito anche di restare lievemente al riparo dalla punizione dei dazi: la tariffa per Londra è del 10 per cento, il minimo garantito a tutti.
Prima di Trump, le Amministrazioni americane avevano sempre voluto che la Gran Bretagna fosse una potenza europea influente, che agisse come un forte sostenitore dell’alleanza atlantica, dall’interno delle istituzioni europee. Ma Trump detesta l’Unione europea e preferirebbe che la Gran Bretagna mantenesse le distanze da Parigi e Berlino in particolare. Per il momento Starmer manterrà la sua disciplina e spererà che la “relazione speciale” – assieme al fatto che Trump possiede campi da golf in Scozia – significhi che la Gran Bretagna sarà trattata meno duramente e soggetta a meno abusi rispetto alle altre grandi potenze europee. Potrebbe ottenere una o due piccole concessioni, ma in realtà i britannici hanno ben poca influenza. Prima o poi Starmer potrebbe essere costretto a scegliere. Era profondamente contrario alla Brexit e sa bene che ha danneggiato la Gran Bretagna. Ma ha fatto una campagna elettorale con la promessa di non tentare di rientrare nell’Ue (nel caso in cui gli europei ci dessero un’altra possibilità) e non romperà questa promessa, a prescindere dal comportamento selvaggio degli americani. Nel frattempo, i francesi rimangono buoni amici e attualmente sono molto più affidabili e facili da trattare degli americani. Lo stesso vale per le relazioni della Gran Bretagna con i tedeschi, gli italiani e gli spagnoli. Lungi dal creare un cuneo tra la Gran Bretagna e l’Europa, Trump potrebbe aver spinto la Gran Bretagna a rendersi conto che, in fin dei conti, siamo buoni europei.