Un conservatore e un progressista discutono sul significato contemporaneo di essere a favore della vita
Nel dibattito pubblico sull’aborto, spesso le posizioni si irrigidiscono: da una parte chi lo considera un diritto intoccabile, dall’altra chi lo vede come una ferita da evitare a ogni costo. Ma cosa succede quando due visioni contrapposte provano davvero ad ascoltarsi? In questo confronto, un conservatore e una progressista si parlano senza slogan, riconoscendo la complessità del tema.
Conservatore: Io non sono un estremista. Non ho mai gridato sotto le cliniche, non credo che la 194 sia il Male in codice. Ma continuo a pensare che esista qualcosa di oggettivo nella vita nascente, qualcosa che meriti tutela anche se non è ancora persona, anche se non ha voce, anche se complica terribilmente la vita di chi la porta in grembo. Essere pro life oggi, per me, significa restare fedeli a questa evidenza scomoda: che la libertà dell’adulto non può sempre prevalere sulla fragilità dell’embrione.
Progressista: Quella che chiami evidenza è, in realtà, una posizione etica legittima, ma non neutra. Il problema non è tanto credere in questa posizione, quanto volerla imporre con la forza della legge. Una società democratica deve proteggere la libertà di coscienza, non sostituirla con la coscienza di una parte. Nessuno nega che la vita sia un valore, ma resta da stabilire quale vita, in quale momento, con quali conseguenze.
Conservatore: Non si tratta di imporre, ma di prendere sul serio il conflitto. Non c’è nulla di più ideologico del rifiuto di riconoscere il dilemma morale che ogni aborto porta con sé. E il compito di uno stato non è solo garantire diritti, ma anche educare alla responsabilità. L’aborto non è mai un bene. A volte è una scelta inevitabile, ma sempre tragica. Il punto non è criminalizzare chi lo compie, ma fare di tutto perché nessuno si senta costretto a compierlo.
Progressista: La vera “educazione” è lasciare spazio alla decisione, non prescriverla. Non c’è nulla di più ipocrita che parlare di “tragicità” in astratto mentre si tagliano i fondi ai consultori, si ostacola la contraccezione, si diffida chi informa. In certi ambienti pro life c’è un doppio standard: grande amore per la vita nascente, scarsissimo interesse per quella già nata, soprattutto se è povera, straniera, marginale.
Conservatore: E’ vero: è stato un errore storico del movimento pro life ridurre tutto all’aborto, dimenticando il contesto. Se davvero si vuole difendere la vita, bisogna occuparsene dalla culla alla bara: lotta alla povertà infantile, politiche familiari solide, sostegno alla disabilità, hospice dignitosi per i malati terminali. Non si può essere pro life solo per le nascite. E il caso americano è un monito: la sentenza Dobbs ha tolto il diritto all’aborto federale, ma non ha prodotto una società più giusta. Solo più arrabbiata.
Progressista: Hai colto il punto. Lo scenario post-Roe ha dimostrato quanto una vittoria giuridica possa diventare una sconfitta culturale. Vietare l’aborto senza costruire alternative reali significa lasciare le donne più sole, più precarie, più colpevolizzate. E se oggi c’è una versione civile del pro life, essa deve partire dalla realtà: nel 75 per cento dei casi, chi interrompe una gravidanza lo fa perché si sente senza risorse, senza appoggio, senza vie d’uscita.
Conservatore: Allora potremmo essere d’accordo su una cosa: una politica davvero pro life deve avere tre gambe: prevenzione, accoglienza, sostegno. Prevenzione con l’educazione affettiva e sessuale, accoglienza con consultori che non siano luoghi di propaganda ma di ascolto, sostegno economico reale per chi decide di portare a termine una gravidanza non prevista.
Progressista: Se queste sono le premesse, io firmo. Ma la condizione è che non si parta mai dal sospetto. Che non si chieda a una donna “perché lo fai?”, ma “di cosa hai bisogno?”. Perché troppe volte il discorso pro life è stato usato come leva politica, come codice morale, come strumento di giudizio. E questo, oggi, non è più accettabile.
Conservatore: Su questo hai ragione. E’ ora di uscire dalla postura giudicante. Ma anche dal relativismo pigro che fa finta che tutto si equivalga. Il pro life del 2025 non è un crociato. E’ uno che riconosce la complessità, ma non rinuncia al principio.
Progressista: E il principio qual è?
Conservatore: Che la vita ha un valore, anche quando non è ancora riconosciuta. E che il nostro dovere non è obbligare, ma convincere. Non punire, ma accompagnare.
Progressista: E per me, il principio è che la libertà ha un valore, anche quando è difficile da accettare. E non c’è vita piena senza la possibilità di scegliere. Anche di sbagliare. Anche di decidere di non diventare madre.
I due interlocutori alla fine restano in silenzio. Guardano i dati, le leggi nel mondo: l’Ungheria che inasprisce le regole, la Francia che ha appena inserito il diritto all’aborto in Costituzione, la Spagna che facilita l’accesso alla pillola, gli Stati Uniti spaccati in due, l’Italia ferma in un equilibrio fragile. Non c’è una direzione sola, ma si può criticare l’aborto senza disprezzare chi lo vive. Che si può essere pro life senza essere contro. E forse, è proprio questo il compito: riportare umanità in un tema che la politica ha trattato come un campo di battaglia.
Conservatore: Significa uscire dalla logica binaria.
Progressista: Sì, riconoscere che l’aborto è una ferita anche quando è scelto con coscienza. Iniziare a parlare di bene possibile, non di colpa. Di futuro, non solo di leggi.