Quando finisce il diritto e comincia il sospetto? Il garantismo è diventato una scusa? Parliamone
Diciamocelo: la giustizia italiana è troppo lenta, troppo timida, troppo piena di scappatoie. Se non ci fosse la pressione dell’opinione pubblica, certe inchieste nemmeno partirebbero. Altro che gogna, qui servirebbe una torcia accesa”. Così esordisce il giustizialista. Non ha la bava alla bocca, non vuole processi sommari, dice. Ma pensa che il garantismo in Italia sia diventato una forma di privilegio: la coperta con cui si riparano i potenti, la formula elegante con cui si ferma ogni responsabilità.
Il garantista lo guarda con un sorriso stanco. Dice che ha sentito questo argomento mille volte, sempre con le stesse parole. Eppure ogni volta resta allibito dalla leggerezza con cui si tratta il concetto di “presunzione d’innocenza”. Come se fosse un formalismo, un vezzo da avvocati, una pignoleria per proteggere chi ha già tutto. Ma è il contrario, insiste: è l’unica barriera che protegge l’individuo dall’invasività del potere. Se la togliamo, non resta che la piazza.
“Ma la piazza”, ribatte il giustizialista, “a volte è l’unico spazio dove la verità emerge. Se lasci tutto alla macchina giudiziaria, non arriva mai una risposta. O arriva quando ormai non serve più. E in questo frattempo eterno, i cittadini perdono fiducia. Non è peggio?”.
“No”, dice il garantista. “E’ proprio questo il punto: la giustizia non è fatta per soddisfare l’ansia dell’opinione pubblica. E’ fatta per verificare fatti, con regole, con tempi, con prove. Se la reputazione sociale prende il posto della sentenza, torniamo al Medioevo. La gogna non punisce, sporca. Non giudica, schiaccia. E una volta che ti sei preso la tua dose di fango, nessuna assoluzione te la toglie più di dosso”.
“Ma la stampa deve raccontare. E se uno è indagato per una cosa grave, perché non si dovrebbe scriverlo? Il giornalismo non è il bollettino del tribunale. E’ controllo, è potere diffuso. Se uno è sotto inchiesta, ha il dovere di spiegare”.
“Scrivere si può. Ma il punto non è scrivere. E’ il tono, l’insinuazione, la ripetizione ossessiva, il titolo sbattuto. Il punto è che in Italia si pubblicano intercettazioni irrilevanti, si accostano fatti senza connessione, si costruiscono narrazioni moralistiche che rendono ogni imputato una macchietta. E intanto la parola ‘presunto’ sparisce. E’ sempre troppo lunga per stare nel titolo”.
Si scaldano. C’è tensione, ma non disprezzo. Si rispettano. E sanno che stanno parlando dell’Italia, non di un astratto dibattito teorico. Parlano del paese in cui si può finire sulle prime pagine per un avviso di garanzia e poi essere assolti con formula piena dieci anni dopo, quando nessuno legge più.
Il giustizialista tira fuori i soliti nomi. Dice: ma allora Palamara? Ma allora il Mose? Ma allora Mafia Capitale? E il garantista risponde: proprio per quelli serviva rigore. Se vuoi colpire davvero, devi fare processi impeccabili, non processi in Tv. Non confondere la giustizia con il giustizialismo. Una cosa è chiedere rigore, un’altra è sostituirsi ai tribunali.
“Ma ci sono casi in cui il processo non serve per sapere”, dice il giustizialista. “Serve per dimostrare quello che tutti già vedono. La gente non è stupida. Capisce benissimo chi è marcio”.
“No, la gente non capisce ‘benissimo’. La gente intuisce, presume, deduce”, ribatte il garantista. “Ma per condannare serve qualcosa di più: servono prove. Serve un giudice. Serve il contraddittorio. L’unica cosa peggiore di un colpevole libero è un innocente distrutto”.
“Eppure, il garantismo che difendi tu non protegge i più deboli. Protegge chi ha buoni avvocati. Chi conosce i tempi. Chi può giocare con la prescrizione”.
“E qui hai ragione”, dice il garantista. Per questo il garantismo va esteso, non ridotto. Non è che dobbiamo rinunciare al principio perché non lo applichiamo a tutti. Dobbiamo renderlo più reale per chi ha meno difese. Ma questo non si fa col giustizialismo. Si fa con la riforma della giustizia. Con l’istruzione. Con una stampa più sobria”.
Poi si parla di casi concreti. Di un sindaco che finisce sotto indagine per abuso d’ufficio, poi archiviato. Di un docente sospeso per una mail interpretata male. Di un amministratore pubblico messo alla gogna per una delibera legittima, ma impopolare. Nessuno è stato condannato. Ma tutti hanno perso qualcosa: tempo, reputazione, salute.
“La verità”, dice il giustizialista con un po’ di amarezza, “è che la giustizia in Italia non punisce abbastanza. Ma la gogna punisce troppo, e subito. E allora c’è chi spera nella seconda perché ha perso fiducia nella prima”.
“Esatto”, dice il garantista. “Ma la soluzione non è alimentare la gogna. E’ ricostruire la fiducia”.
Si guardano. Non hanno cambiato idea. Ma si sono spostati un po’. Il giustizialista riconosce che l’abuso di potere mediatico esiste. Che la stampa può distruggere. Che una foto all’uscita dal tribunale può valere più di cento pagine di motivazioni. Il garantista ammette che molti “garantisti” sono tali solo quando tocca ai loro amici. Che il termine è stato svuotato. Che si è detto “garantismo” anche per coprire l’inazione, la complicità, il silenzio.
Forse, dicono entrambi, il nodo è lì. Il garantismo non deve più essere una reazione, ma un metodo. Non deve nascere solo quando un innocente viene umiliato, ma deve stare prima. Nella cultura, nella prassi, nella formazione. E la stampa dovrebbe essere la prima garante di quella cultura. Non la sua negazione.
Alla fine si salutano. Il garantista con un “ricordati che un domani può toccare a te”. Il giustizialista con un “ricordati che ci sono colpe che la giustizia non punisce mai”. Entrambi sanno che hanno ragione. Ed è per questo che il dibattito continua.