Le “big 3” (Ford, General Motors e Stellantis) sono tutte in questo stato, con quasi un migliaio di fabbriche legate ai motori. Una persona su cinque lavora in questo comparto dell’industria. Il Michigan, che a novembre aveva votato per Donald, è la prima vittime della politica economica Casa Bianca
Il Michigan a novembre ha votato per Donald Trump. Ora lo stato è la prima vittima dei dazi della Casa Bianca che a fine mese ha annunciato il 25 per cento sulle automobili prodotte all’estero e sulla componentistica importata. In Michigan, come ci ricorda Michael Moore ogni volta che parla, l’economia è strettamente legata all’industria delle automobili. Detroit la chiamano Motor City. Le “big 3” – Ford, General Motors e Stellantis – sono tutte qui, con quasi un migliaio di fabbriche legate ai motori. Una persona su cinque lavora nell’industria delle auto.
Solo nel sobborgo di Auburn Hills la ex Fiat-Chrysler ha 15 mila impiegati. E da dove provengono una buona parte dei componenti per costruire le automobili del Michigan? Dalla Cina, dal Messico e dal Canada. E dove vanno parte dei componenti prodotti in Michigan? In Canada e in Messico. Cioè da alcuni dei paesi più duramente colpiti dai dazi. Anche se è solo la 14esima economia degli Stati Uniti, il Michigan è al quinto posto per il volume di import-export. Le Ford Bronco, le Chevrolet Silverado, le Jeep e le Dodge, simboli dell’on the road americano, hanno bisogno di pezzi made in Ontario e made in Jalisco, e adesso per prepararsi al peggio le aziende stanno facendo scorta, come quando si accumulava la carta igienica nei giorni del Covid. E ci sono famiglie che pensano di comprare subito un’utilitaria, perché si parla di incrementi di dieci, quindici, ventimila dollari sui prezzi di listino. Come ha riportato il Wall Street Journal, anche i paninari di Detroit sono preoccupati, hanno paura che i lavoratori a breve non potranno più permettersi di mangiare fuori in pausa pranzo. I manager si chiudono in assetto da guerra nelle sale riunioni cercando di capire cosa fare, di fronte all’incertezza totale.
“Peggio di quanto ci aspettassimo”, dicono gli analisti. E c’è chi paragona la situazione in Michigan a una possibile Chernobyl, quando i dazi colpiranno l’industria. Soprattutto quando gli altri paesi, Cina in testa, decideranno come rispondere a questa guerra commerciale. Con l’esoterica equazione di Trump del liberation day si sta mettendo a rischio il sistema di integrazione e di scambio con i paesi confinanti. Sistema che aveva ridato ossigeno al Michigan dopo che negli anni ‘90 molte aziende avevano spostato la produzione dove costava meno. Secondo la Camera di commercio canadese, l’area di Detroit e la provincia dell’Ontario formano una delle più grandi catene di fornitura globali per l’industria dell’auto. Michigan e Ontario insieme producono circa il 22 per cento dei veicoli del Nord America. Globalizzazione al suo meglio contro la retorica della Jeep a chilometro zero. In Michigan, e in altri stati, il Canada ha comprato degli spazi pubblicitari sui cartelloni lungo le autostrade con il messaggio: “Le tariffe sono una tassa”, una campagna che il ministero di Ottawa per gli affari globali ha definito “educativa”, per “informare gli americani” che alla fine pagheranno loro i costi dei dazi.
“Se volete essere premiati, costruite in America. Se volete essere penalizzati, costruite fuori dall’America”, ha detto il vicepresidente J. D. Vance il mese scorso, durante una visita a Bangor Township, in Michigan, promettendo un “rinascimento della manifattura”. Le associazioni dei produttori di auto dello stato hanno scritto al presidente Trump dicendo che però questo sistema alla fine colpirà i consumatori, perché loro saranno costretti ad alzare i prezzi dei veicoli, soprattutto per “la middle class e i lavoratori”. Anche i produttori stranieri, come Hyundai, hanno già avvertito i concessionari che probabilmente si dovranno alzare i prezzi. Stellantis ha già lasciato a casa, temporaneamente, 900 persone, tra Michigan e Indiana, che si occupavano di componentistica da mandare in Canada e in Messico, nelle sue fabbriche. Anche altre piccole aziende di fanali e volanti stanno iniziando ad annunciare che probabilmente chiuderanno i loro impianti all’estero, per evitare di rimanere schiacciati dai dazi e rendendo tutto, per la gioia di Trump, made in Usa. Ma è un processo così imprevedibile e veloce che tutti sono in allarme (tranne Trump, che va a giocare a golf).
La senatrice democratica Elissa Slotkin, che da gennaio rappresenta il Michigan, dice che la gente non necessariamente capisce come funzionano questi meccanismi, ma “capisce il prezzo del latte, del caffè e dello zucchero. E vedremo cosa succederà. Tutti vogliono riportare il lavoro in America, ma serve un po’ di prevedibilità. Non si possono capovolgere le cose da un giorno all’altro”. Con i mercati in allarme e i discorsi su probabili recessioni di economisti e manager di Goldman Sachs, anche Fox News, che da decenni mette sempre nel sottopancia i numeri del Dow Jones, li ha tolti per un po’. E oltre a qualche veterano senatore repubblicano che inizia ad alzare un pochino la voce spaventandosi davanti al crollo di Wall Street, anche gli influencer dell’alt-right che hanno aiutato Trump a vincere tra la Gen Z iniziano a prendere le distanze, vedendo i loro bitcoin alla deriva.