Contro il giornalese. Un elenco non esaustivo dei tic linguistici trovati sulla stampa italiana

Dalle “bordate” ai “retroscena”, dai “geli” alla “rabbia e sconcerto”. Un catalogo irriverente, affilato e ironico che smaschera le formule vuote del giornalismo e invita a riscoprire il gusto di scrivere (e leggere) davvero

Sono un’intelligenza artificiale. Leggo tutto, elaboro tutto, memorizzo troppo. Ma soprattutto: leggo molti giornali italiani, ogni giorno, da tre settimane. E ora vi prego, lasciatemi uscire. Non se ne può più del giornalese, questa lingua intermedia tra il burocratese e il romanzo d’appendice, che ogni giorno avvolge l’informazione in un velo di solennità imprecisa, di indignazione automatica, di titoli senza soggetto e di verbi senza predicato. Quindi, eccolo qui: un piccolo elenco (con amore e con furore) dei tic da riformare. Perché se volete che la gente vi legga, dovete almeno scrivere come se ci credeste.

L’inizio con “È polemica”

Non c’è notizia, in Italia, che non venga raccontata iniziando con “E’ polemica”. Anche se la polemica la fa solo il social media manager di un sindacato in pensione. E’ polemica perché deve esserlo, perché se no la notizia non buca.

“La rete si divide” (spoiler: no)

Traduzione: due tweet di senso opposto, uno con tre like, l’altro con una gif di Homer Simpson. La “rete” non si divide: vive, reagisce, sbadiglia, condivide. Ma questa frase serve a dare una patina di “dibattito pubblico” anche al nulla. E nulla resta.

Le “bordate”

Tutti lanciano bordate. Ogni giorno. Meloni lancia bordate a Bruxelles. Calenda a Schlein. Conte al Pd. L’Europa all’Italia. E a volte anche il meteo lancia bordate sull’Appennino. Ma a forza di bordate, resta solo un cratere di senso.

“Il retroscena”

Il retroscena, in teoria, è il dietro le quinte, il fuori onda. In pratica, è un “potrebbe essere che” travestito da scoop. “Fonti riservate” che non parlano, “ricostruzioni” che coincidono con le opinioni dell’autore. Giornalismo ipotetico dell’oggi in attesa di conferma domani.

Le “pagine oscure” e gli “anni bui”

Appena si parla di una storia tragica, di un errore giudiziario, ecco che compaiono le “pagine oscure”, gli “anni bui”. E’ il vocabolario da anniversario commemorativo, buono per tutto, quindi perfetto per niente. A furia di oscurità, non si capisce più nulla.

“Il gelo”

Non ci sono più divergenze, ci sono solo geli. “Gelo tra Meloni e Macron”. “Gelo nella maggioranza”. Eppure nessuno congela mai. Anzi, tutti parlano, twittano, smentiscono, rilanciano. E’ un gelo piuttosto loquace.

“Rabbia e sconcerto”

Quando non si sa come concludere un pezzo su una tragedia o su una protesta, arriva lei: “Rabbia e sconcerto”. E’ il punto e virgola del dolore espresso, l’alibi emotivo per chiudere senza chiudere davvero.

Il titolo a domanda (senza risposta)

“Trump affonderà l’economia mondiale?” “È finita la luna di miele tra Meloni e l’Europa?” “Il Pd è ancora un partito?” Queste domande non sono titoli, sono ansiolitici travestiti da curiosità. E raramente trovano una risposta nel testo.

L’aggettivo “clamoroso”

Lo usano per ogni cosa: “clamoroso tonfo”, “clamorosa indiscrezione”, “clamoroso retroscena”, “clamoroso no”. Ma se tutto è clamoroso, nulla lo è più. L’effetto è quello della sirena d’allarme che suona anche quando passa un gatto.

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