Pechino promette di combattere la guerra commerciale con Washington

La genuflessione del Vietnam e l’aggressività cinese. A Trump naturalmente piace la prima

Tra le aree più colpite dai dazi imposti dal presidente americano Donald Trump ci sono l’Asia e il sud-est asiatico. E tra i paesi, ai vertici della classifica ci sono il Vietnam e la Cina, a cui sono stati imposti rispettivamente dazi del 46 e del 34 per cento. Ma Hanoi e Pechino, entrambi guidati da partiti comunisti, hanno reagito in modo opposto ottenendo dalla Casa Bianca reazioni diverse e particolarmente efficaci per rappresentare gli obiettivi di Trump nella sua guerra commerciale globale. Il Vietnam ha chiesto subito negoziati con l’America, mentre la seconda economia globale ha imposto a sua volta dazi del 34 per cento sulle importazioni dall’America. Il primo effetto c’è stato: i titoli dell’Asia-Pacifico, da Shanghai a Tokyo, da Sydney a Hong Kong, “sono crollati lunedì a livelli che non si vedevano da decenni”, ha scritto la Bbc.

Lo Shanghai Composite, a un certo punto della giornata, “è sceso di oltre l’8 per cento, l’Hang Seng di Hong Kong è sceso di oltre il 13 per cento e il Nikkei 225 del Giappone ha chiuso in ribasso del 7,8 per cento – movimenti che un analista ha descritto alla Bbc come un ‘bagno di sangue’”. Un bagno di sangue che rischia di peggiorare: ieri pomeriggio il presidente americano ha mandato via Truth, il suo social simile a Twitter, un messaggio alla Cina, minacciando che se non revocheranno i dazi ritorsivi sulle importazioni dall’America a sua volta aggiungerà un altro 50 per cento di dazi sulle merci cinesi, facendo raggiungere ai prodotti made in China importati in America il 104 per cento di dazi. La rapida reazione cinese è stata il frutto di un attento studio delle possibili mosse americane: Pechino sapeva come comportarsi anche di fronte al peggior scenario, che in effetti si è verificato. Ieri in un editoriale molto commentato l’agenzia di stampa Xinhua – principale organo di propaganda del Partito comunista cinese – ha scritto che “questa Amministrazione statunitense sotto Donald Trump considera la coercizione economica come una strategia vincente. Le concessioni possono solo incoraggiare la sua propensione al bullismo”. E’ il vero mondo al contrario, considerato che è stata la Cina per prima, sotto la leadership di Xi Jinping, a usare lo strumento della coercizione economica per realizzare obiettivi politici. Ora però è Pechino che accusa l’America di fare lo stesso: “L’intenzionale escalation dei dazi non risolverà in alcun modo i problemi del commercio globale. La verità più allarmante è che l’aumento delle barriere commerciali è già diventato uno dei modi con cui Washington vuole usare le sofferenze economiche come leva per guadagni geopolitici”. Cioè costringendo paesi più deboli a negoziare.


E infatti tre giorni fa Trump aveva annunciato subito e con grande soddisfazione la sua conversazione telefonica con To Lam, segretario generale del Partito comunista e presidente del Vietnam. La conversazione fra i due c’era stata neanche ventiquattr’ore dopo quello che Trump stesso aveva definito “il giorno della Liberazione”: “Mi ha detto che il Vietnam vuole ridurre le sue tariffe a zero se riuscirà a trovare un accordo con gli Stati Uniti”. E’ la politica della genuflessione e della gratitudine quella che vuole ottenere la Casa Bianca, costringendo gli altri a negoziare manifestando una debolezza, e infatti la reazione vietnamita è stata quella che più ha gratificato il presidente. Ma il metodo funziona con economie più ridotte, che hanno bisogno degli investimenti americani per sviluppare il settore economico privato – e meglio se non hanno una prova elettorale da affrontare. In Vietnam gran parte delle pressioni per arrivare a un accordo con Washington sono arrivate dalle grandi aziende americane che producono nel paese asiatico, prima fra tutte la Nike, e così Hanoi si è resa disponibile a creare un tavolo negoziale con l’obiettivo di arrivare gradualmente a dazi zero nelle importazioni dall’America e, in cambio, ottenere una sospensione di 45 giorni sui dazi americani.



Tutto il contrario della Cina, che ha risposto ai nuovi dazi imposti da Trump reagendo immediatamente in modo proporzionato e reciproco. Ryan Hass, analista del China Center della Brookings Institution, ha scritto su X: “Chiunque si aspetti che il presidente Xi telefoni o cerchi di parlare con il presidente Trump dopo l’annuncio dei dazi del 2 aprile è pericolosamente ingenuo. Chiunque consigli a Trump che Xi implorerà il perdono sta commettendo un errore gravissimo. Non è questo l’umore né il piano a Pechino in questo momento”. Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha scritto su Facebook (social censurato in Cina, vale la pena ricordarlo ogni volta) che “il mercato ha parlato. La guerra commerciale e di dazi iniziata dall’America contro il mondo è immotivata e ingiustificata”. Mao Ning, l’altra portavoce del ministero cinese, ha condiviso su X il discorso dell’ex presidente americano Ronald Reagan contro i dazi e il protezionismo che sta circolando molto in questi giorni. Come se Trump usasse un video di Mao Zedong per difendere i suoi piani economici e sociali.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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