Il Var ha tolto al calcio la sua magia, trasformando l’errore in scandalo e il gol in sospetto. Questa tecnologia, nata per fare giustizia, ha spento l’epica e l’emozione del gioco
C’era una volta un gioco meraviglioso in cui l’errore era parte del rito, l’ingiustizia era argomento da bar, e il gol annullato al novantesimo diventava leggenda, non “check in corso”. Poi arrivò il Var, la grande promessa illuminista del calcio. E come tutte le promesse illuminate, finì per spegnere la luce. Lo chiamarono Video Assistant Referee, ma in realtà era un algoritmo travestito da arbitro, una moviola con l’autostima di un notaio, una torre d’avorio tecnologica installata accanto ai campi di Serie A, Premier, Champions e Mondiali, per dire al mondo: il calcio ora sarà giusto. Ma la giustizia, come sanno i romanzieri e i napoletani, non è mai stata il cuore del pallone. Il cuore del pallone è l’ingiustizia epica, quella che fa soffrire per vent’anni e amare per sempre.
Il Var ha trasformato il gol in un sospetto. Ogni esultanza è diventata una sospensione. Si guarda l’arbitro, si aspetta la cuffia, si alza il braccio. Il momento più bello del calcio – il gol – è stato preso in ostaggio dalla lente d’ingrandimento. Non c’è più tempo per correre sotto la curva, solo per correre a rallentatore verso un destino che potrebbe sempre essere ribaltato da un ginocchio in fuorigioco.
E non serve immaginare. È già successo. Manchester, aprile 2019, Champions League. Sterling segna al 93’ il gol che manda il City in semifinale. Guardiola esplode, lo stadio diventa un vulcano. Ma il Var congela tutto. Revisione. Millimetrica. Agüero, pochi centimetri oltre, prima dell’assist. Fuorigioco. Gol annullato. Fine del sogno. La gioia più grande trasformata nel nulla. L’epica ribaltata da una linea tracciata su uno schermo. E tutto in pochi secondi. Il calcio non si era mai sentito così lontano dal suo cuore. E dire che il fuorigioco era già una maledizione in sé. Ma almeno era chiaro, imperfetto, umano. Ora è geometria sacra, linee tirate da un ingegnere senza sonno, che annullano gol per asimmetrie millimetriche di talloni, ascelle, molari.
Il calcio non è un laboratorio. È una festa pagana. E ogni tentativo di purificarlo con strumenti tecnici finisce per snaturarlo. Il Var è figlio dello stesso spirito che vuole algoritmi per scegliere i libri, intelligenze artificiali per scrivere le poesie, GPS per camminare nel proprio quartiere. Un’ideologia della precisione che non conosce la grazia dell’imprecisione. Prendete l’assurda tendenza a ricontrollare ogni contatto in area. Un tocco di mano al rallenty sembra sempre rigore. La lente lo deforma, lo trasforma, lo mistifica. Il Var trasforma ogni contrasto in complotto, ogni urto in crimine, ogni pestone in movente. È la moviola del sospetto, la prova video al servizio dell’arbitro più confuso di sempre. Sì, perché anche loro, gli arbitri, sembrano vittime. Sono diventati burocrati con auricolare, preti indecisi che rimandano ogni decisione alla sacra stanza di Lione o di Coverciano. Una volta c’era l’autorità, oggi c’è la codardia in HD. E non è finita. Il Var doveva ridurre le polemiche. Le ha moltiplicate per dieci. Adesso si discute non solo dell’arbitro, ma del Var, del varista, del momento in cui è stato chiamato, del motivo per cui a Napoli sì e a Torino no. Ogni errore umano diventato errore semi-umano genera una spirale infinita di sospetti. E l’ossessione per la trasparenza è diventata la nuova opacità.
Tutto questo per cosa? Per correggere cinque errori a stagione? Per annullare un paio di gol irregolari? Il prezzo è troppo alto. Il calcio ha perso l’istinto. È diventato psicanalisi continua. È entrato in terapia intensiva e non ne esce più. Si dirà: ma così si evitano gli scandali. Vero. Ma anche il dramma. E il dramma è parte del calcio. L’errore arbitrale ha fatto la storia come i colpi di testa al novantaduesimo. È l’errore che ci ha insegnato la fede laica nel destino, la capacità di digerire l’ingiusto, il romanticismo dell’inspiegabile.
Nel mondo Var, tutto è spiegabile. Ma nulla è emozionante. Il Var è la grande vendetta del calcolo sul caso, della norma sulla narrazione. Ha rubato al calcio la sua metafisica, la sua mistica. L’ha fatto diventare un fascicolo, un algoritmo, una pratica da archiviare dopo l’ultima revisione. E se un giorno ci diranno che il Var può anche stabilire se un giocatore ha simulato psicologicamente, se il suo tuffo era convinto o meno, ci sarà qualcuno pronto ad applaudire. Ma il calcio sarà morto e nessuno se ne sarà accorto. Sogniamo un giorno – un giorno solo – in cui si stacchi la corrente. In cui l’arbitro fischi, sbagli, venga insultato e dimenticato, e un gol in fuorigioco venga accolto con furore e non con angoscia. Un giorno di grazia sbagliata. Un giorno di calcio vero. E intanto ricordiamo. Come quella finale del 1966, Inghilterra contro Germania Ovest, Wembley. Supplementari. Geoff Hurst tira, la palla sbatte sotto la traversa e rimbalza sulla linea. Gol o no? Nessuno lo sa. Il guardalinee alza la bandierina, l’arbitro convalida. È il 3-2, l’Inghilterra diventa campione del mondo. Da allora, discussioni infinite, leggende, accuse, filmati analizzati all’infinito. Il gol fantasma è diventato storia. E senza Var, è diventato mito. Proprio come dovrebbe fare il calcio.