I pacifisti e Pannella, manifestare contro l’Europa è come urlare contro il medico mentre il virus ti mangia vivo

Cosa direbbe oggi Marco Pannella davanti al pacifismo contemporaneo, criticando la sua ambiguità e la mancanza di azione concreta. Per lui, la pace si costruisce con il federalismo, la responsabilità e la difesa attiva dei valori democratici

Se Marco Pannella fosse ancora vivo, oggi probabilmente sarebbe in uno studio televisivo scadente, vestito da seminarista libertino come sempre, a urlare che i pacifisti moderni non hanno capito un’acca. Che “il pacifismo va messo al bando”, come disse al Corriere nel 1991, perché “ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli di nazismo e comunismo”. E poi, con la sua voce impastata e affilata, guarderebbe dritto in camera e griderebbe: volete la pace? Allora difendete chi la garantisce, non chi la distrugge! Oggi Pannella vedrebbe questi cortei per la pace che sembrano messi in scena da uno scenografo svogliato. Tutti pieni di buoni sentimenti, colombe stilizzate, cartelli che dicono “no alle armi all’Ucraina” come se mandare elmetti potesse provocare una terza guerra mondiale. Manifestazioni che non nominano mai la Russia, ma se la prendono con l’Europa, l’America, la Nato, l’occidente, la democrazia. Come se Putin lanciasse i missili perché gli danno fastidio i dibattiti del Parlamento europeo.

Pannella li prenderebbe per mano, i nuovi pacifisti, e gli direbbe con affetto e una punta di disprezzo: siete i figli legittimi di Chamberlain, non di Gandhi. Il pacifismo che non nomina l’aggressore, che si strappa i capelli per un carro armato ma tace su un crimine di guerra, è quello che fece vincere Hitler per quieto vivere.

Lui la distinzione la faceva eccome, tra pacifismo e nonviolenza. La nonviolenza era Gandhi, Russell, Capitini, Martin Luther King. Era organizzazione, era proposta. Era disarmo con la forza del diritto. Il pacifismo invece, diceva Pannella, è “una resa camuffata da moralismo”. E’ lasciare che il più forte faccia quel che vuole, in nome della propria superiorità morale. Se vedesse gli studenti che occupano le università americane per chiedere il disarmo di Israele e nessuna parola su Hamas, probabilmente si metterebbe a piangere. Poi griderebbe. Poi citerebbe Bertrand Russell. Poi citerebbe se stesso. Poi accenderebbe Radio Radicale e andrebbe avanti sei ore.

E a chi oggi manifesta “per la pace” ma chiede l’uscita dell’Italia dall’Unione europea, direbbe che sono degli scellerati. Perché la pace – diceva Pannella già nel 1991 – si fa con il federalismo europeo. Con l’Europa che diventa una potenza democratica, con un esercito comune, una politica estera degna di questo nome, e la capacità di agire. Non con le mozioni nei consigli comunali e i girotondi con le fiaccole. “La pace tra le democrazie c’è”, diceva, “da un secolo non vi sono guerre tra democrazie”. Perché diritto e libertà sono la prima garanzia. Ecco perché, diceva, serve una politica estera federalista, una riforma dell’Onu, un’Europa capace di imporsi. Ma oggi questa parola – federalismo – fa storcere il naso anche a sinistra, figuriamoci tra i reduci del No War.

Pannella avrebbe preso per il bavero anche i pacifisti più sofisticati, quelli con la spilla arcobaleno e il lessico da centro sociale, che dicono: “non siamo con Putin, ma…” E quel ma, per lui, sarebbe bastato a squalificarli. Perché nella storia, quando si relativizza l’aggressore, si assolve il carnefice. E lui di carnefici ne aveva visti abbastanza. Avrebbe anche sorriso, certo. E avrebbe detto, come sempre: non proteste, ma proposte. Perché anche davanti al disastro, lui ci vedeva una strada. Ed è questa la differenza. I pacifisti d’oggi si indignano e basta. Lui si indignava e organizzava. E faceva politica. Politica vera. E concluderebbe come sapeva fare lui, scomodando un ossimoro perfetto: “La pace va combattuta”.

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