Come i dazi sono diventati di destra, grazie alla sinistra

Un conservatore e un progressista si confrontano sui dazi e sul nuovo populismo economico, con qualche sorpresa

Progressista: Il 2 aprile Trump ha annunciato nuovi dazi contro la Cina. Nessuno ha protestato. Nessuno ha occupato una sede dell’Organizzazione mondiale del commercio. Nessuna tuta bianca, nessun campeggio. Il populismo protezionista è diventato il mainstream, e la cosa incredibile è che ci sono arrivati proprio quelli che, vent’anni fa, lottavano contro la globalizzazione neoliberale.

Conservatore: Lo trovo commovente. L’unica cosa che ancora unisce l’America profonda, i sindacati metallurgici e Steve Bannon è la guerra ai container cinesi. Una volta era l’altermondialismo, adesso è il nazionalismo. Ma la melodia è la stessa: basta delocalizzazioni, basta industrie svendute, basta ricatti dei mercati.

Progressista: Tu scherzi, ma è tragico. I democratici – quelli veri, non i neoliberisti con Mba – avevano avvertito vent’anni fa che l’ingresso della Cina nel Wto sarebbe stato devastante per la classe media occidentale. Ora che quel disastro è realtà, il Partito democratico si è arreso, mentre i repubblicani fanno il lavoro sporco.

Conservatore: Ma davvero pensi che siano i repubblicani a farlo per primi? Biden ha mantenuto i dazi di Trump per tutta la durata del suo mandato. Li ha pure estesi a settori strategici come le batterie elettriche. Gli Stati Uniti oggi hanno una politica industriale che Roosevelt si sognava.

Progressista: Con una differenza: Roosevelt costruiva ponti. Trump costruisce muri. Lo vedi anche nella retorica. Quando Biden parlava di reshoring, usava toni collaborativi: “torniamo a investire in America, facciamolo insieme”. Quando Trump parla di dazi, è una minaccia: “puniremo chi ci ruba il lavoro”. Eì sempre colpa di qualcun altro.

Conservatore: Ma chi se ne frega della retorica. La sinistra è diventata un club di fact-checker che si aggrappa alle sfumature linguistiche perché ha perso la sostanza. La realtà è che la destra ha capito che il popolo non vuole più il libero commercio. E agisce di conseguenza.

Progressista: No, la realtà è che il protezionismo trumpiano è una farsa. Se i dazi servono a difendere la manifattura americana, perché colpiscono pure prodotti che gli Stati Uniti non producono più da trent’anni? Perché il loro unico obiettivo è sembrare forti, non essere efficaci.

Conservatore: Ma l’efficacia si misura nel consenso. E Trump ha vinto nel 2016 anche grazie alla sua guerra commerciale. Poi, certo, ha combinato disastri. Ma almeno ha rotto il tabù. Prima di lui, dire “tariffe” era come dire “lebbra”.

Progressista: Lo capisci che questa svolta è l’ennesima conferma che la destra è diventata post-liberale? Che ha abbandonato ogni residuo di ortodossia economica? Reagan non avrebbe mai messo un dazio. Nemmeno Thatcher.

Conservatore: Appunto. Ed è per questo che siamo ancora qui, a fare i conti con il loro fallimento. La destra reaganiana credeva nei mercati, ma i mercati hanno premiato chi sfrutta, non chi produce. Il capitalismo globale ha distrutto il tessuto sociale dell’occidente. Era ora che qualcuno dicesse basta.

Progressista: Tu dici “qualcuno”, io dico “Trump”. Ma se il prezzo di dire basta è abbracciare l’autoritarismo, allora no grazie. Perché i dazi non arrivano mai da soli. Portano con sé la nostalgia, l’identitarismo, la xenofobia.

Conservatore: Stai facendo il solito collage moralistico. Come se ogni misura economica fosse l’anticamera del fascismo. Ma magari – e dico magari – Trump ha solo fatto ciò che l’establishment progressista non ha avuto il coraggio di fare: sfidare il consenso globalista.

Progressista: E allora perché non dirlo chiaramente? Perché non rivendicare che l’ideologia no global ha vinto, ma nelle mani sbagliate?

Conservatore: Perché è imbarazzante. I no global di Seattle volevano salvare il mondo e si ritrovano alleati di un miliardario con il golf club. Non è Trump che ha copiato i no global. Sono i no global che si sono arresi a Trump.

Progressista: Sai cosa manca in tutto questo? Una visione. La destra no global sa benissimo cosa odia: la Cina, le multinazionali, i trattati. Ma non sa cosa vuole. Non ha un modello alternativo. Solo nostalgia.

Conservatore: E invece il modello c’è. È quello del capitalismo patriottico: meno Amazon, più Ohio. Meno interdipendenza, più sovranità. Meno Wall Street, più fabbriche vere.

Progressista: E’ il modello di Orbán, non quello di Roosevelt. E’ il modello che scambia la giustizia sociale per l’autarchia.

Conservatore: Ma almeno è un modello. La sinistra oggi non ne ha uno. A parte correggere gli errori altrui, cos’altro propone? Più libero scambio con regimi totalitari? Più precarietà “green”?

Progressista: Propone di non buttare via settant’anni di cooperazione internazionale. Propone di non tornare al mondo dei blocchi e dei ricatti. I dazi sono un’arma, e le armi creano nemici.

Conservatore: Meglio nemici che padroni invisibili. La globalizzazione ha dissolto ogni legame tra cittadino e potere. Il protezionismo non è la fine della storia, ma almeno è un inizio.

Progressista: Ma un inizio verso dove? Chiudere i porti, chiudere le fabbriche, chiudere le menti.

Conservatore: Aprirle, invece. Alla possibilità che il futuro non debba somigliare per forza al passato più recente. Alla possibilità che l’interesse nazionale non sia una parolaccia.

Progressista: Alla possibilità che un giorno, da qualche parte, qualcuno dica: “Trump aveva ragione”. E allora sì che sarà finita.

Conservatore: O magari sarà appena cominciata.

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