Pino Daniele, Maradona e Totò tra isterismi e venerazione. Ecco i nuovi santi di Napoli

Folle fluviali per ricordare il cantautore di “Napule è”. Poi il campione che protegge dai terremoti. Storie di moderne apoteosi partenopee, celebrate nelle strade, sui palchi, nei musei

Il “Nero a metà” è stato celebrato proprio così: diviso in due. Una parte è andata al Palapartenope e l’altra a piazza del Gesù per il decennale della morte di Pino Daniele e i settant’anni dalla sua nascita. Stesso giorno e stessa ora ma su due palchi diversi, con due gruppi di artisti e due pubblici a commemorare il 19 marzo, onomastico e genetliaco del cantautore. Pino a metà, come per i sant’uomini di cui i devoti in epoca barocca si contendevano reliquie in quei sabba celesti animati dallo spontaneo moto della folla. Un amore viscerale, un “Je sto vicino a te” forever che si è manifestato per “Pinotto” come per nessuno fuori Napoli sarebbe stato possibile, e ciò è quasi scontato, ma nemmeno dentro Napoli, dove pure è lungo l’elenco dei glorificati dal sentimento popolare: da Totò a Diego Armando Maradona, con una lista che non riguarda solo le icone di massa. Gli articoli e le foto d’epoca restituiscono fluviali partecipazioni – con “tiri” di morelli impennacchiati e la banda municipale – ai funerali del poeta Ferdinando Russo (1927) o del filosofo Benedetto Croce (1952), che la sola aliquota di intellettuali cittadini non sarebbe riuscita a garantire (sono due tra esempi innumerevoli).



Ci furono congedi che si chiusero con l’addio al congedato, altri che sono durati di più o hanno registrato alterne sorti, sicché persino il principe de Curtis dovette aspettare una colletta privata per ottenere il primo piccolo monumento, che fu una statua collocata nel decentrato Rione Alto, e molto tempo attese ancora per un pubblico ricordo nel natio Rione Sanità; Nino Taranto, morto nel 1986, solo a fine 2024 ha ottenuto l’onore della toponomastica; per non dire di Eduardo De Filippo, che ha sempre suscitato amorosi inchini ma lungi dall’adesione sentimentale di cui beneficia la memoria di Pino Daniele, oscurando anche gli omaggi tributati a Massimo Troisi. Due i documentari usciti a distanza di pochi mesi: Pino Daniele – Nero a metà di Marco Spagnoli e Stefano Senardi e Pino di Francesco Lettieri, approdato in sala a fine marzo e in testa al box office italiano. E’ stato intanto annunciato il film biografico dal titolo Je so’ pazzo, con Massimiliano Caiazzo nel ruolo di protagonista, tratto dal libro del secondogenito dell’artista, Alessandro Daniele (un progetto che aveva accarezzato anche il produttore Pietro Valsecchi), mentre Rai 2 ha ritrasmesso il documentario Il tempo resterà, firmato da Giorgio Verdelli nel 2017.

Non finisce qui: il 20 marzo è stata inaugurata a Palazzo Reale una mostra su Pino Daniele, che resterà aperta fino al 6 luglio, e la Zecca dello Stato ha coniato una medaglia celebrativa in argento a forma di plettro, che reca sul dritto il volto in blu di Pino e sul rovescio la sua chitarra e un pentagramma con le prime note di Napule è. Cita la celeberrima canzone, con il verso d’apertura “Napule è mille culure”, anche il Mulino Caputo pubblicizzando le farine con una pagina sui giornali. Non basta ancora: il 19 marzo è stata scoperta una targa in via Santa Maria La Nova 32, dove Pino Daniele visse al terzo piano l’infanzia e l’adolescenza con le due zie acquisite (le sorelle nubili Bianca e Lia, che presero a cuore il figlio della loro domestica, Rita De Luca, e di Gennaro). A pochissima distanza c’è l’ex vicoletto Donnalbina, già ribattezzato dal Comune via Pino Daniele. Sono questi solo i maggiori tributi all’artista che pure, appena raggiunto il successo, decise di abbandonare Napoli per Formia il 27 febbraio del 1980 assieme alla prima moglie Dorina Giangrande e ai primi due figli.



Non amava la folla e le preferì un esilio volontario di cui avrebbe sofferto la solitudine. Al contrario del grande tenore Enrico Caruso, che si risentì con la sua città dopo una contestazione al Teatro San Carlo (peraltro pare mai avvenuta) e giurò di non cantarci più, Daniele a Napoli tornava solo per cantare. Memorabile – 200 mila persone – il concerto del 19 settembre 1981, festa di san Gennaro. Però a lui, come a Troisi, il “fujtevenne” eduardiano è stato ampiamente perdonato con una indulgenza che i concittadini rimasti non concedono a tutti. E gli è stata perdonata anche l’assenza post mortem perché Pino riposa in Toscana, come gli sono stati perdonati gli ultimi album che non avevano sempre incontrato le aspettative di un pubblico ancora stregato dai primi successi. Ogni commemorazione reca il titolo di qualche canzone del periodo iniziale, perché agiografia permettendo si sa che tutti gli artisti attraversano fasi felici, felicissime e meno felici, sicché il Pino Daniele della beatificazione è quello che col brano Quanno chiove incantò lo scrittore e giornalista Francesco Durante, che lo ascoltò la prima volta sul raccordo Pordenone-Portogruaro alla guida di una vecchia Citroen CX; è quello che ammaliò Diego De Silva in un concerto allo stadio comunale di Salerno con Sulo pe’ parlà, quando – avrebbe rievocato anni dopo – “l’amore per le canzoni di Pino Daniele rimbalzava da ascoltatore ad ascoltatore con una velocità di contagio al limite dell’epidemia”. Lui era e resta nel ricordo il “guaglione di Santa Chiara” che nel ’77 conquistò con Terra mia la generazione di chi qui scrive, cui sarà consentita una parentesi autobiografica avendo frequentato l’ultimo anno di liceo in via San Giovanni Maggiore Pignatelli, proprio la strada dov’era andata a vivere la famiglia di Pino dopo la nascita di sua sorella Anna, che morì a tre anni per una meningite (le avrebbe dedicato il brano Annarè). Non sapevamo allora di consumare quella musica così nuova davvero a chilometro zero, e gli unici suoni che le rubassero l’aria esplodevano a mezza mattinata dal rullante che accompagnava un anziano, sfiduciato “pazzariello” cui gli studenti gettavano dalla finestra quante più monete affinché continuasse il fracasso che costringeva i professori a sospendere la lezione, sopraffatti dalla rimbombante acustica dell’angusta strada.



Percorrendo quella via, il 19 marzo scorso, c’era ancora su un muro scrostato il manifesto che annunciava la morte di Carmine Daniele di anni 66 detto “Giò”, l’amato fratello minore di Pino ricordato anche lui in una delle prime canzoni, I got the Blues, che se n’è andato a novembre scorso per colpa del cuore. Come l’altro germano Salvatore. Come Pino. Quel liceo, nel Palazzo Riario Sforza dove abitò l’omonimo cardinale di Napoli che odiava Garibaldi e i Savoia, si è estinto da tempo e ne ha occupato il posto un “hotel de charme”; per via San Giovanni Maggiore Pignatelli da tempo non cammina più col suo carretto il tarallaro Fortunato, protagonista di un altro brano di Pino; non ci cammina più l’infaticabile mendicante peripatetico che generazioni di napoletani hanno conosciuto solo per la sua ossessiva invocazione “’O ppa’ ’o ppa’” (“Il pane, il pane”). Si chiamava Umberto Consiglio, è morto a 88 anni nel 2022: due mesi dopo, la sua figura è ricomparsa su un murale che ne ha dotato la sagoma di due ali azzurre d’angelo e di un cuore pure azzurro. Il cuore di Napoli.



Che è assai retorico ma neanche è il “cuoricini” sanremese: fu il cuore di Pino, di Troisi, di Totò il punto debole da cui ne scappò l’anima, fu il cuore che li fece amare e poi li portò via per successiva glorificazione. Fu il cuore di Mario Merola, che si fermò nel 2006 ed è stato celebrato anch’egli nel primo scorcio di quest’anno con il film documentario Il Re di Napoli, dove le immagini catturano Maradona – che cantava il brano Cient’anne ma amava pure Pino Daniele. Sono tanti gli ennesimi aspiranti “re” che s’aggiungono agli otto ufficiali delle statue sulla facciata di Palazzo Reale in piazza Plebiscito. L’ultimo della serie, sciabolone levato nella destra, è l’abusivo Vittorio Emanuele II. Fu primo re d’Italia, ma sovrano di Napoli mai. L’ultimo re, quello vero, lo ritrovate invece – per qualcuno sarà una sorpresa – in una cappella laterale dello storico tempio di Santa Caterina a Formiello, nei pressi di Porta Capuana, dove si conservano le reliquie dei santi martiri d’Otranto, e i credenti possono inginocchiarsi dinanzi al ritratto di sua maestà perché dal 2020 la Chiesa lo ha riconosciuto servo di Dio, prima tappa nella causa di canonizzazione (ci vedeva lungo Tomasi di Lampedusa, quando fece dire al suo principe che Franceschiello era “un seminarista vestito da generale”).



’O core. T’’o ddico c’’o core ’mmano: reale o esagerata pretesa di schiettezza che non è tutta frutto della vena popolare, ma si rinviene nella statua alla virtù della Sincerità dentro l’aristocratica Cappella Sansevero, dove una donna protende nella sinistra un cuore, il proprio, oggi anche a beneficio dei turisti che consumato il “cuoppo” di frittura lo digeriscono visitando il Cristo Velato e le altre meraviglie concepite dal principe settecentesco Raimondo di Sangro. Capace di cacciarsi nei guai come di districarsene, al nobiluomo esoterista mal incolse scrivere che poteva replicare in laboratorio qualcosa di simile al prodigio del sangue di san Gennaro, cui invece l’artista Jorit Agoch, restaurando a febbraio scorso il murale del patrono vicino al Duomo, ha cancellato le sacre ampolle scatenando le polemiche. Chissà che senso può avere il protettore di Napoli senza l’attributo identitario che ne fa, per laici e credenti, l’infungibile santo, mentre Jorit con i suoi volti serializzati ha saturato ormai il paesaggio urbano dal centro alle periferie. Chissà in quale Napoli vive, se detrae il sacro a una città dove il numero dei beati di Chiesa o di popolo tende sempre alla crescita anziché alla riduzione. Solo nei primi tre mesi di quest’anno sono ascesi al pantheon, anche se con liturgia minore rispetto alla pirotecnica apoteosi di Pino Daniele, due grandi epigoni della canzone: Roberto Murolo, con la trasformazione della sua casa vomerese in un museo inaugurato dal sindaco il 21 febbraio, e Peppino di Capri, cui l’onore del film biografico Champagne, trasmesso su Rai 1 il 24 marzo scorso, è fortunatamente toccato da vivo, privilegio ancora raro ma in via di diffusione, paragonabile a quel che fu l’ingresso di Raffaele La Capria nei Meridiani Mondadori (non uno ma due volumi) o alla statua fuori della Real Maestranza di Siviglia al vivente matador Curro Romero.



Eccezioni felici all’aspra regola denunciata da Giuseppe Marotta, secondo cui è dopo la morte che si diventa preziosi. In Italia e tanto più a Napoli: “Non vedo l’ora di estinguermi,” scrisse (forse) scherzando “per essere commemorato, descritto, lodato, eccetera: per sapere finalmente chi ero. Forse un vero, un intero Marotta comincerà effettivamente allora”. Ogni trapasso è riconciliatore: l’autore di Terra mia rinunciò alla presenza della bella ’mbriana, la fata domestica tradizionale che percepiva nella casa dei suoceri in piazza Medaglie d’Oro, per allontanarsi da Napoli (“ho un carattere abbastanza strano: mi dà fastidio il successo di pubblico, l’essere riconosciuto per strada, essere trattato come uno diverso dagli altri”). Schivo quanto lui fu Troisi, e lo stesso Totò preferiva tornare in città con il favore della notte. Alla stretta soffocante della folla, che è agognata finché non ce l’hai, all’abbraccio carnale e collettivo, solo dopo la morte non si sfugge più. Ha ragione l’antropologo Marino Niola quando ci dice che “Napoli è come una madre imperiosa: ti dà moltissimo e molto ti toglie, però guarda solo a ciò che dà senza riflettere su ciò che toglie. Anna Maria Ortese lo definì un mistero femminile materno della natura contro la ragione. Napoli vuol riprendersi quelli che se ne vanno perché da madre tutto perdona ai figli purché non si vogliano emancipare: stenta a lasciarli partire, e quando non riesce a trattenerli in questa vita prova a riprenderseli nell’altra”.



E’ una temperie emozionale che non ha eguali altrove: né Milano per Jannacci né Genova per De André né Bologna per Dalla, restando nei territori della canzone, hanno animato una commemorazione collettiva paragonabile a quella di “san” Daniele. Con le consuete screziature partenopee. Nel concerto al Gesù gridavano “vergogna” le due migliaia di persone rimaste dietro le transenne perché la cerimonia prevedeva solo 400 inviti con posti a sedere più una serie di discorsi assai prammatici: il tuttologo scrittore, una soubrette che confondeva il nome della piazza mentre gli esclusi scandivano laggiù “Pino è d’’o nuosto!”. Così gridava, “Francesco è d’’o nuosto”, il popolo accorso nel 1716 attorno alle venerabili spoglie del gesuita Francesco de Geronimo, “ansioso ognuno di avere alcuna piccola coserella del Sant’Uomo da conservarsi qual preziosa reliquia, e massimamente del sangue”, raccontano le agiografie dell’epoca. Brani allora di pelle o di vestiario, oggi soltanto brani musicali. Sicché all’indomani del concerto Nello Daniele, superstite fratello di Pino e tra gli organizzatori dell’evento, s’è scusato su Facebook spiegando che le infelicità della serata non erano state colpa sua.


Sotto le spoglie del rock permangono gli umori della città barocca, una memoria che si concede alla ripetizione e spinge a chiedersi: ma Giambattista Vico concepì la sua filosofia perché era nato a Napoli?
“Non per caso vedeva che al di sopra della fuga irreversibile del tempo c’è un ricorrere che invece è circolare”, osserva Niola. “Napoli congeda difficilmente il suo passato e fatica a liberarsene”. Lui la paragona al personaggio di Funes el memorioso che dà il titolo a un racconto borgesiano, il quale ricordava paurosamente tutto, “ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano” e “poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia”. Secondo Niola, “la memoria di Napoli è talmente ‘zippata’ che da una parte costituisce un dono, ma dall’altra è un problema. Si ripresenta sempre gravata dai suoi resti. Tanto arricchisce quanto ingombra”. Furono una volta i grandi personaggi religiosi, sono adesso le icone dello star system. Figli della città o affiliati, come Maradona, per assimilazione. “Sta nascendo un nuovo culto nel santuario laico dinanzi al murale di Diego ai Quartieri Spagnoli, più visitato degli Scavi di Pompei. I soliti indignati non capiscono il fenomeno cui stiamo assistendo ma peggio per loro”, dice Niola. “E’ una sorta di canonizzazione dal basso, una santità carnale. Mi ha raccontato una ragazza che abita ai Quartieri di non aver paura delle scosse telluriche del bradisismo, perché la sua famiglia scende a largo Maradona dove la protegge lui”.



Poco distante, in vico Tre Re a Toledo, perdura il meno profano pellegrinaggio alla casa della settecentesca suor Maria Francesca, la prima santa nata, vissuta e morta a Napoli. Sulla sua sedia s’accomodano le donne per propiziarsi la fertilità e il parto felice. Era, fino a pochi anni addietro, un culto praticato fra le matriarche della zona; oggi vi fanno tappa, magari per curiosità, persino i croceristi. Si sfiora il folklore? E’ dai tempi del Grand Tour che il rischio esiste, però sarà difficile che una città così possa svendere l’anima al turismo anche se lo lascia credere: chi la comprerà, scartato il pacco troverà un mattone e si lamenterà dei “soliti napoletani”. Perché forse la bella ’mbriana non si vede ma esiste veramente; e san Gennaro fa il prodigio anche se lo street artist non ci crede; e Maradona produrrà miracoli come già il principe de Curtis; e Pino Daniele riempie le piazze anche da morto, lasciando i resti del difficile carattere e i pezzi meno riusciti alla pulizia del tempo. Perché non ci si può attenere solo alla realtà “scadente”, per citare il film che Paolo Sorrentino dedicò alla propria adolescenza (e a Maradona). Per dirla con T.S. Eliot, “humankind cannot bear very much reality”; è questo il verso che richiama Massimo Cerulo, ordinario di Sociologia all’Università Federico II, commentando le enfatiche celebrazioni di marzo: “Noi, naviganti del digitale e alle prese con molteplici finestre di impegni quotidiani, preferiamo, a volte, farci trasportare dal flusso delle emozioni prodotte e condivise da altri piuttosto che riflettere sulle stesse”.



Si tratta, dice Cerulo, “di contagio emotivo” e il caso napoletano può essere esemplare: “Siamo ritornati ad avere a che fare con le masse. Un insieme di persone appartenenti a generazioni differenti che vive, spesso inconsapevolmente, un percorso di imitazione, teso a copiare la prospettiva dominante, che, è bene chiarirlo, comporta diversi vantaggi: in primis, integrazione sociale e scarsa fatica mentale da parte di coloro che imitano. Con ciò non voglio sostenere la mancata razionalità di gran parte delle persone partecipanti a questi eventi sociali”, chiarisce. Si tratta piuttosto di una forma di “leggerezza”: “Georg Simmel parlerebbe di ‘socievolezza’. Si preferisce non pensare più di tanto all’azione che si sta compiendo, ma vivere nel flusso, imitando gli altri e facendo palestra di società”. Talora come “sonnambuli”, piegandosi a suggerimenti vari: “pubblicità, marketing, moda del momento, politica”. O, se non è azzardato aggiungerlo alle considerazioni del sociologo, piegandosi a una influencer tipo Rita De Crescenzo, che capeggia una gita a Roccaraso o le piazze del Movimento 5 Stelle. Chi sa, quando s’esagera, in quale parodia si può finire. Per primo Pino avrebbe aborrito: “Avevo un rapporto con la mia città, ora non più, mi è vietato passeggiare per le strade in cui ero abituato a muovermi. Non ci posso andare, sennò il parapiglia è tale da bloccare me e tutto il resto”. Così si lamentava, come riporta nella biografia il figlio Alessandro: “E’ una limitazione fisica che diventa un tormento psicologico”.



“La sua apoteosi però mi fa piacere. Chiamiamola pure beatificazione ma la meritava”, ci dice Renzo Arbore, il quale ricorda di aver contribuito alla scoperta e al lancio del giovanissimo musicista sia con la radio sia con la televisione: “Rimandavo tutti i giorni ’Na tazzulella ’e cafè, perché capii che prometteva un successo e che sbocciava un grande innovatore della musica napoletana. Lo invitai tante volte a reinterpretare qualche classico, come aveva fatto con Voce ’e notte Peppino di Capri, ma proprio non voleva. Quando insistevo perché cantasse Reginella mi rispose: ‘Piuttosto te la vengo a suonare’”. E’ pure contento, Arbore, che una fiction abbia omaggiato Peppino di Capri (“ha fatto ballare tutti quelli della mia generazione e fu un maestro per noi che facevamo il night”) e che la casa di Murolo sia diventata museo: “E forse è ancora poco. Roberto è stato un caposcuola: la sua voce ha avuto per la musica napoletana la stessa importanza di Joao Gilberto per quella brasiliana, inventando un nuovo modo di cantare che ha influenzato dalla nouvelle vague ai più recenti interpreti. Ricordo che quei brani classici, a differenza di Pino, li amava molto Massimo Troisi e che li intonavamo a cena: Lusingame e Nisciuno erano le sue canzoni preferite e progettammo un album che avrebbe cantato lui. Purtroppo non facemmo in tempo”. “E’ curioso che Troisi sia amatissimo a Napoli ma non beatificato quanto Pino Daniele” prosegue Arbore. “Credo dipenda dal fatto che morì nel ’94, quando la città faceva ancora i conti con un’epoca difficile, mentre adesso è una capitale culturale riconosciuta pure dal turismo di massa. Prima, quando tentavamo di invertire la narrazione, io e Luciano De Crescenzo eravamo tacciati di cartolinismo dagli stessi napoletani, che ripetevano la solfa del ‘qui non si può più stare, qui non funziona niente…’ Era davvero tutt’altra stagione”.



La riscoperta di Napoli ha cambiato via San Giovanni Maggiore Pignatelli, come tutto il centro antico, rispetto a quando la bazzicava lo speranzoso “Pinotto”. Con i dazi oleografici, naturalmente, da pagare. L’associazione culturale animata dai liutai della Bottega del mandolino, nel cortile al numero 5, ammicca ai turisti con un balcone dedicato a Caruso da cui s’affaccia un pupazzo del tenore finalmente pacificato con la città dopo un secolo di incomprensione (solo nel 2021 la modesta casa natale nel quartiere di San Giovanniello è stata trasformata in museo e nel 2023 un Museo Caruso è stato allestito nella Sala Dorica a Palazzo Reale). Se oggi un “pazzariello” tornasse a battere la via non sarebbe più a uso dei napoletani ma a consumo dei turisti. Per selfie e reel. Sono i “mille culure” di Napule è, che si può cantare allo Stadio Maradona, al termine di un film, per reclamizzare la farina, per chi arriva e chi va, per alludere alle contraddizioni o banalizzarle, per rivendicare o detestare. Fu l’anno prima di morire che, tornato per una serie di concerti, il musicista portò il figlio a una curva del lungomare da cui guardava Castel dell’Ovo. S’accese mezzo sigaro e gli disse: “E’ qui che ho cominciato a scrivere Napule è”. A diciott’anni. Già ci sono canzoni ricordate con le lapidi. Forse questa s’aggiungerà in qualche successivo anniversario.

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