Osservare chi corre una maratona per capire perché ne vale la pena

Dal professionale allo scassato, fino a quello che si inchina a favore di camera. L’umanità che affronta quarantadue chilometri di inferno per finire inondata da applausi e abbracci. E alla fine la meta ripaga la fatica

Non ho mai capito la gente che corre, e non lo dico in senso deteriore; proprio mi manca quel pezzo che mi induce a mettere un balzello dietro l’altro per cinque, venti, quarantadue chilometri. Ieri però c’era la maratona di Milano e io sono stato in piazza Duomo ad attendere due concorrenti miei amici, nel caso fossero sopravvissuti. Ho potuto così notare la varia umanità che taglia il traguardo e la relativa gamma di emozioni: c’è il professionale e lo scassato, quello che arriva trascinandosi e quello che ha ancora energie per mettersi a ballare, il mutilo e il reduce da brutte malattie, quello che piange e quello che cerca di vomitarmi sulle scarpe, il turista con la maglia del Milan e quello che si inchina in favore di telecamera, quello con un pollo di peluche e quello che indossa la tenuta di remotissime società polisportive, quello che ci mette poco ma è arrabbiato perché poteva far meglio e quello che arriva un’ora dopo ma è raggiante perché non credeva di farcela.

Parafrasando Balthasar, la maratona è un inferno che esiste ma che è vuoto; dopo quarantadue chilometri di sacramenti, infatti, tutti vengono accolti da applausi, abbracci, affetti che li cercano premurosamente e perfino una medaglia. È una lampante, quasi didascalica metafora di come l’esistenza, pur costando fatica, alla fine valga la pena. Sulla gente che corre ho potuto così aggiornare la mia prospettiva: tuttora non capisco perché parta, ma ho capito perché arriva.

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