Il vino, la campagna, la politica e la giustizia. Una giornata con l’ex magistrato. “Coltivo la terra, mi alzo presto e ceno alle otto. Mani Pulite? Una rivoluzione incompleta. Volevamo fermare la corruzione, non distruggere i partiti”
“Non rinnego nulla, errori inclusi”, dice Antonio Di Pietro. “Oggi sono il frutto del mio passato”. Non è possibile dire se l’essere umano sia in grado di costruire la propria vita, ma certamente la vita che ha vissuto finisce col trasformare lui. E chissà se è per questo che oggi, a settantacinque anni, quest’uomo ancora alto ma un po’ curvo, con i capelli ancora scuri e tirati all’indietro come un tempo (nel suo bagno di casa c’è una bomboletta di lacca “Cielo Alto”: 5 euro e 60 centesimi) sorride e un po’ annuisce quando gli si dice che i politici della Prima Repubblica, quelli che lui ha spazzato via con quella tempesta e promessa di Mani Pulite, erano più colti e persino meglio vestiti di quelli di oggi. Anche se, quando si insiste, un po’ s’innervosisce: “Vedo in giro una certa nostalgia per il passato. Una forma di revisionismo che comprendo ma non approvo. Il fatto che fossero più colti e più preparati, che sapessero parlare è certamente vero, ma non vuol dire che non andassero perseguiti. C’era una corruzione endemica in Italia. In quegli anni nasce e si gonfia il debito pubblico. Io ho fatto il mio lavoro. Se fossi stato un giornalista, avrei raccontato. Se fossi stato un barista, avrei offerto del caffè. Io quello facevo di mestiere. Il pubblico ministero. E non ho incontrato delle persone che rubavano frutta al supermercato, mi sono imbattuto in gente che rubava allo stato. E li ho indagati. A prescindere dal fatto che fossero persone di una stoffa culturale e politica che poi si è perduta. L’obiettivo non era distruggere i partiti. Ma perseguire i corrotti”. Epperò è tra le sue carte e le sue manette che i partiti sono morti, mentre lui poi è entrato in politica provando forse a sostituirsi a quel vuoto.
Quando lo chiamo al telefono e gli dico che lo voglio incontrare, mi chiede almeno dieci volte se sono sicuro di volerlo raggiungere lì dove sta, in Molise, lontano da tutto, in campagna. “Guardi che è lontano”, mi avverte ridendo. “Non sarebbe meglio una videochiamata?”. Insisto. E allora lui: “Le mando un indirizzo. Lei lo mette su Google Maps. Quando arriva a quell’indirizzo lei mi telefona e io poi la vengo a prendere. Perché non abito lì. Io vivo in un posto così isolato che non compare nemmeno sulle mappe di Google”. E in effetti le strade che portano a casa sua sono strette e sconnesse. Un intreccio di curve e di salite che si arrampicano su una campagna silenziosa, assai poco abitata, punteggiata di ulivi, qualche vite, campi a maggese e i fiori gialli della senape selvatica che spuntano ovunque tra l’erba e le buche nell’asfalto come macchie di sole in una giornata grigia di fine inverno. Si è ritirato come Garibaldi a Caprera, Di Pietro. O almeno così si presenta. A proposito: onorevole o dottore? Come vuole essere chiamato? “Quando ero magistrato ero ‘dottore’, da parlamentare sono diventato ‘onorevole’, ma qua mi chiamano tutti Tonino”. A Montenero di Bisaccia. E mentre lo dice mi indica il terreno sotto i piedi: coriandolo, poi gli ulivi sul declivio, la vigna che si stende più sotto, vicino a una casa lontana (“lì c’era il casolare dove sono nato”) e un bosco dove in questo periodo gli asparagi selvatici spuntano come un dono. La sua vigna è un Montepulciano “con un terzo di Aglianico”, mi spiega. L’uva finisce in una cantina sociale, e una botte Di Pietro la tiene per sé: “Prima di andare via le riempio una bottiglia”. Ma questo non è il vino di Massimo D’Alema. Qui non c’è nessun grande consulente agronomo. Né etichette. Né sopracciò intellettuale. Nessun fighettismo, per così dire. Si è proprio ritirato? “Ritirato è un termine che dice tutto e dice poco. Da cittadino non mi sono ritirato, e neanche da cittadino che guarda la politica. Mi sono ritirato dall’attività pubblica, questo sì. E non solo non ho rimpianti ma non ritornerei mai a fare politica”. Perché? “Perché c’è un tempo per ogni cosa”, aggiunge con lo stesso ironico sorriso forse da sconfitto, chissà, con cui un uomo che ha venduto l’anima al diavolo ricorda dopo tanti anni il momento in cui il diavolo aveva rispettato la sua parte del patto. Qualcuno direbbe che si è ritirato perché ha fallito, in politica. “Può darsi”. E cosa fa adesso? “Ogni tanto faccio l’avvocato, se le cause mi interessano. Lavoro la terra, ceno alle 8.30 e vado a letto presto. Ma seguo ancora quello che succede, sia chiaro. Leggo il Corriere, la Repubblica, il Fatto, Libero, il Giornale e La Verità. In questo ordine. Guardo i Tg la sera, prima di addormentarmi. Faccio zapping. Vedo Rete 4 e Rai 3, allo stesso tempo. E mi diverto a sentire la stessa notizia che prende due sapori completamente diversi. Guardo anche qualche talk-show. Ma la sa una cosa?”.
Prego. “Hanno sempre gli stessi ospiti, un po’ hanno rotto le scatole. Insomma non sono un Cincinnato, come vede”. Né Garibaldi. “Garibaldi portava la camicia rossa, io di rosso non ho mai avuto niente”. E si mette a ridere. Lo dice perché lei è un uomo di destra? “Mi sono sempre considerato un liberale”. Chi ha votato alle elezioni europee? “Non glielo dico”. Ma apprezza Giorgia Meloni, il dottor Di Pietro. “E’ in buona fede e sta facendo bene il suo lavoro, ma ho difficoltà a votarla più che altro per le persone che la circondano”, dice. Elly Schlein? “La rispetto, anche se non condivido quasi nulla. La vedo molto battagliera, e la apprezzo soprattutto per la pazienza di districarsi in quel viperaio del Pd”. Giuseppe Conte? “Un personaggio in cerca d’autore”. Matteo Salvini? “Il gemello di Conte”. E’ ancora amico di Beppe Grillo? “A Grillo va espressa solidarietà per come è stato tradito nelle sue idee dalle persone che ha portato in Parlamento”. Però, mi perdoni, lei “liberale”, non si offenda, non è mai sembrato a nessuno. Anzi, probabilmente Di Pietro in Italia ha aperto la strada al populismo senza briglia. “Vengo da una famiglia che votava Dc, come tante. Ma non si faceva politica a casa, la mia era una casa di gente che lavorava e basta. In campagna”, racconta lui. “Ricordo quando ero piccolo, veniva il segretario cittadino della democrazia cristiana a fine anno per Natale e ci portava la tessera del partito assieme a quella dei coltivatori diretti. A quel punto mia madre gli regalava un cesto di uova. Questa era la tradizione. E quella tessera lì la vedevamo un po’ come gli auguri di Natale”.
Chi l’avrebbe mai pensato che quel bambino avrebbe un giorno portato la Dc alla sbarra, l’avrebbe messa con le spalle al muro. Disintegrata. Con quell’immagine terribile e insieme evocativa: la bava di Arnaldo Forlani in Aula, a Milano, durante il processo Enimont. “Io non ho mai costruito teoremi. ‘Carta canta’, così lavoravo. Per questo in Aula, in tribunale, anche quei grandi personaggi che fino a un giorno prima era considerati dei Padreterno, finiva che s’impappinavano”. Come Forlani. “Ho letto in questi anni ricostruzioni favolose, nel senso di fantasiose, su Mani Pulite. Poteri oscuri. Trame. Persino i servizi segreti. Ma dietro di me non c’era nessuno e non c’era niente. Se non questo: l’esercizio di un dovere”. Nessun eccesso? “Dipende da cosa s’intende per eccesso”. Mettevate la gente in galera, e usciva soltanto dopo una confessione o una delazione. “Io rifiuto l’idea di aver ecceduto nella carcerazione preventiva. E’ oggi, semmai, che c’è un eccesso di carcerazione preventiva. Mica allora”. Osservandolo, si direbbe che la memoria ritenga capricciosamente i dettagli che preferisce: è lucida e opaca allo stesso tempo, minuziosa e generica. Ciascuno ricorda ciò che vuole, come vuole. “Non ho difficoltà a dire che a quei tempi c’era un clima di caccia alle persone. Sì, c’era. Ma se guardate bene era molto sui giornali e sugli organi d’informazione in generale. Che lo hanno montato. E cavalcato, quel clima. Al punto che se io avevo la stanza piena di gente pronta a parlare e a denunciare non era soltanto perché facessimo paura noi magistrati, ma perché era montato un clima giornalistico. Fortissimo”. I direttori dei maggiori quotidiani si mettevano d’accordo su cosa pubblicare, anche loro lavoravano in pool come i magistrati. Non tutto era puro, non tutto era nobile. La voglia di pulizia si mescolava a un gusto quasi vendicativo, e gli ideali di rinnovamento si scontravano con la realtà di un paese che, finito il fragore, avrebbe dovuto ricostruirsi. Mani Pulite fu un momento di rottura, un sogno gridato a voce troppo alta, che lasciò dietro di sé un’Italia cambiata, ma non sempre come si era immaginato. “Ma ve la ricordate la Rai Tre del Pci e la Rete Quattro di Berlusconi, con Paolo Brosio perennemente in diretta davanti al Palazzo di giustizia? Era una tenaglia. Fininvest, da una parte e Rai Tre, dall’altra. Volevano distruggere il pentapartito. Poi sono rimasti in piedi proprio loro. Il Pci e Berlusconi”. Il bello della tragedia è la scia di mistero e di ineluttabilità che l’accompagna.
Ecco, ma è vero che avete indagato meno sul Pci che sugli altri partiti? “E’ una stupidaggine assoluta. Abbiamo colpito molti comunisti, soprattutto in Lombardia e al nord Italia, arrivando ai segretari amministrativi post 1989. Io direi che abbiamo indagato soprattutto i comunisti”. Addirittura. “Tanti sono finiti anche in galera”. Però noi in Aula abbiamo visto soltanto Craxi e Forlani, non il segretario del Pci o dei Ds. “Craxi e Forlani erano accusati direttamente da altre persone. I principali leader comunisti, D’Alema e Occhetto, no. Io chiesi tre volte di chiamarli a testimoniare, ma il Tribunale me l’ha negato, giustamente, per mancanza di prove. Mi trovate uno che ha mai detto qualcosa su D’Alema o su Occhetto? Mi trovate una lira riconducibile a D’Alema o a Occhetto? Niente di niente”. I comunisti non parlavano, non confessavano, non si denunciavano l’un l’altro, non si tradivano. Come Primo Greganti, il tesoriere del Pci. Muto malgrado sei mesi di carcerazione preventiva. Muto allora, e muto anche per i trent’anni successivi. Ancora oggi. Sempre muto. “E’ più complicato di così. E anche su Greganti si è esagerato, perché i soldi dei comunisti passavano soprattutto dalle cooperative rosse”. Sì, ma allora lei che idea si è fatto sulle ragioni per le quali alla fine il Pci si è tenuto in piedi e la Dc e il Psi non esistono più? “Perché non vi guardate allo specchio voi della stampa? La stampa non dava e non aveva notizie potenti sui comunisti, non ci sono state investigazioni giornalistiche sui loro soldi. Poca roba. Quasi niente. Pensate, negli anni successivi, a quante invece ce ne sono state su Berlusconi persino al di là delle inchieste giudiziarie che lo riguardavano”. I giornali gettavano discredito sulla Dc e il Psi e meno sui comunisti, anche se voi li indagavate? “I comunisti erano molto più bravi di tutti gli altri. Anche nel raccontarsi. Noi abbiamo indagato. Altroché. Abbiamo anche ottenuto condanne. E l’idea che i comunisti siano stati ‘salvati’ dall’inchiesta di Mani Pulite è una fotografia falsata”. Su questo argomento ci torneremo.
E però, implicita, nelle parole di Di Pietro e nei sui sorrisi, c’è anche un’ammissione: quei politici di un tempo, quelli della Prima Repubblica, erano corrotti, sì, forse, ma erano di una stoffa superiore. “Nella Prima Repubblica c’era una cultura politica che però si mescolava alle illecità giudiziarie”, dice l’ex pm. “C’era una cultura socialista, democristiana, comunista, liberale… quello che è seguito dopo Tangentopoli è stato un vuoto. Un vuoto politico che è stato riempito, provvisoriamente, con la nascita dei partiti personali, come quello di Berlusconi. E anche come il mio partito, l’Italia dei valori”. Un vuoto trentennale. Un vuoto disastroso. “Però oggi vedo segnali incoraggianti. Di ritorno a schemi politici classici. Fisiologici. C’è un blocco conservatore e c’è un blocco progressista. Mi sembra più sano. Anche se trovo ridicole le schermaglie in cui si accusano taluni di essere ‘fascisti’. A me pare che sia antistorico, oltre che stupido. E rende difficile il completamento di questa transizione che a mio avviso è inevitabile e necessaria, una transizione verso la nascita di un’area conservatrice, e di un’area progressista”. Poi Di Pietro dice una cosa sonora: “Oggi devo dire che in questo blocco liberal conservatore rientra pienamente Forza Italia, che non è più il partito personale di Silvio Berlusconi, ma è diventato un pezzo dell’asse repubblicano”. Caspita. Un elogio di Forza Italia.
Insomma Antonio Di Pietro dice anche cose che non ti aspetti. Il suo è il volto di un uomo non ancora troppo anziano ma già alterato, lavorato dalla mano del tempo che lentamente, impietosamente, ha tracciato un reticolo sulla pelle liscia e fresca della gioventù. E quel reticolo è la vita, sono le esperienze. Sarà per questo che lui oggi è favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati. Alla riforma promossa dal governo Meloni. “Guardi che in realtà sono sempre stato a favore della separazione delle carriere”, risponde. “La riforma Vassalli degli anni Novanta, quella del sistema accusatorio, fu epocale, ma incompleta”. E qui l’ex pm ricorda come all’indomani della riforma del codice di procedura penale, lui, allora oscuro magistrato, sostenne questa necessità, attirandosi le antipatie dei colleghi. “Mi criticavano, anche nei corridoi del palazzo di giustizia”. Ma Di Pietro dice anche di trovare inaccettabile l’accusa di essersi “convertito” al pensiero del centrodestra. “Negli anni Novanta durante uno sciopero contro un tentativo di riforma, io lasciai la porta del mio ufficio aperta, dicendo: ‘Questo ufficio oggi non sciopera, se qualcuno ha bisogno entri pure’. Una sola persona mi telefonò per darmi solidarietà: il presidente Francesco Cossiga”. Anche Falcone era favorevole alla separazione delle carriere. “Il pubblico ministero cerca le prove di chi ha commesso il reato, l’avvocato cerca ciò che va a discolpa dell’imputato, e infine abbiamo il giudice terzo che valuta tutto in modo indipendente. Però se due dei tre attori del processo fanno parte della stessa famiglia, allora c’è tecnicamente un incesto processuale. Il giudice che è nella stessa carriera del pubblico ministero è evidentemente un incesto processuale. Ma c’è una cosa che mi fa impazzire”. Cosa? “La mistificazione di chi sostiene che questa riforma metterebbe il pm sotto l’esecutivo”. Non è così? “Basta leggerla, la riforma”.
E qui Di Pietro prende dei fogli. E’ la Costituzione. Prima e dopo la riforma. Di Pietro alza la voce, sembra tornato quello di un tempo: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, lo dice la Costituzione oggi e lo dirà anche dopo. Non cambia nulla”. E mostra gli articoli invariati: il 104 e il 109, che garantiscono l’autonomia e l’inamovibilità dei magistrati. “Se un magistrato è pecora e si sottomette al padrone, lo può fare oggi o domani, non è la riforma che cambia questo”. E allora perché l’Anm, l’associazione nazionale dei magistrati, denuncia un tentativo di sottomettere l’indipendenza della magistratura al volere dell’esecutivo? “Perché oggi pm e giudici sono gemelli, nati dalla stessa madre, dallo stesso concorso. Non accettano di diventare figli unici”. Ma Di Pietro attribuisce anche alla politica, in particolare al centrodestra, la colpa di aver politicizzato la riforma, trasformandola in una “clava” contro i magistrati: “Un errore che risale ai tempi di Berlusconi e che si ripete oggi”, dice. E a questo punto l’analisi di Di Pietro si fa più ampia, e si estende alla credibilità della magistratura. Ragione per la quale, anche secondo lui, la riforma è inderogabile.
Ed è ancora una volta sorprendente, l’ex pm di Mani Pulite. “Oggi la credibilità della magistratura è scesa molto nell’opinione pubblica, e la responsabilità principale è della politica che l’ha denigrata, certo, sì. Ma è anche colpa della magistratura stessa”. Ovvero? “Ci sono, e ci sono stati, magistrati che per eccesso di zelo o protagonismo hanno contribuito a creare incertezza nella giustizia. Senso di inaffidabilità. Mi spiego meglio, vede: si può investigare in due modi. Uno è quello previsto dalla Costituzione, che parte dal reato per cercare il colpevole. L’altro è quello pericoloso della ‘pesca a strascico’ in cui si cerca prima il colpevole e poi il reato. Ecco. Se vai alla ricerca del reato, fai retate, prendi cento persone, magari ne fai trattenere agli arresti ottanta, ma venti sono innocenti. Il problema è che tra ottanta colpevoli e un innocente, bisogna tutelare prima l’innocente. E’ questo l’approccio che ha alimentato la sfiducia nella giustizia. Un fenomeno amplificato dal sistema dell’informazione, che spesso generalizza: arrestano uno di un partito, e allora tutto il partito è corrotto. Arrestano un imprenditore, e tutti gli imprenditori sono evasori fiscali”. Forse non sarà diventato garantista, Antonio Di Pietro. Epperò appare diverso da come uno se lo aspetta. Nemmeno condivide la famosa frase del suo ex collega, Pier Camillo Davigo, quell’adagio che recita così: Non esistono innocenti ma soltanto colpevoli che non sono stati ancora scoperti. “E’ una estremizzazione di Piercamillo. Io la rovescerei la frase”, dice. “Non esistono colpevoli ma soltanto innocenti fino a prova contraria”. Addirittura.
Ma che le è successo dottore, lei non è più il personaggio che porta il suo nome? “Sono sempre io. E lo sono con coerenza. Ma ho vissuto”. Quante vite? “Magistrato, uomo politico, ma anche avvocato, indagato e imputato. Quando entri in Aula di giustizia con la toga del pubblico ministero decidi cosa fare. Quando ci entri da avvocato, aspetti che decidono cosa fare. E quando ci entri da imputato non solo aspetti che decidono cosa fare, ma aspetti che decidono cosa fare di te”. E non crede che la degenerazione delle indagini, il meccanismo della “pesca a strascico”, sia un po’, almeno un po’, anche l’effetto lungo di Mani Pulite? “Mani Pulite non era così. Noi ogni giorno chiudevamo le prove su uno, un po’ perché aveva confessato, un po’ perché avevamo trovato i soldi, un po’ perché ce l’avevano detto altri. Non facevamo pesca a strascico. Mani Pulite era un’operazione a piramide, non a piramide rovesciata come fanno oggi, dove prendono tutti e poi cercano i colpevoli. Mani Pulite era esattamente il contrario. Noi partivamo dai falsi in bilancio delle imprese per risalire ai destinatari politici delle tangenti”. Il contrario di quello che fanno i “Di Pietrini”, dice. Gli imitatori. Chissà se tra questi lui ci mette anche Nicola Gratteri. Chissà. “La nostra in realtà non è stata un’inchiesta sulla corruzione, ma è stata un’inchiesta sul falso in bilancio. Scoperto il falso in bilancio andavamo dai sospettati. Vede, la corruzione è un matrimonio, non può esserci senza due persone. Per provarla definitivamente, devi convincere qualcuno a rompere il patto di omertà”. Ma le confessioni, quelle che rompevano il patto di omertà, si raccoglievano grazie all’uso estensivo della carcerazione preventiva, obietto. Esci solo se canti. “Questo, per quanto riguarda ciò che ho fatto io, non è vero. Per me le misure cautelari erano utili a evitare l’inquinamento probatorio. E tranne qualche rara eccezione non duravano più di qualche ora o qualche giorno. Non sono mai serviti a strappare una confessione”. E Di Pietro appare non solo sicuro di ciò che dice, ma anche sincero. Sembra crederci. Forse ogni biografia che un uomo si è inventato è autentica: quando l’autore l’ha elaborata, l’ha vissuta più intensamente che se l’avesse vissuta davvero. In quegli anni il carcere e l’onta delle manette facevano così paura che alcuni si uccisero. Quaranta suicidi. Tra cui Sergio Moroni e Gabriele Cagliari. Raul Gardini si sparò un colpo di rivoltella perché pensava che lei lo stesse facendo arrestare. “Gli avevo dato la mia parola, che non l’avrei fatto. Stava venendo da me a parlare. Vide i carabinieri che non erano lì per arrestarlo…”.
E’ marzo, e la casetta di Di Pietro appare come un punto bianco contro il verde delle colline. E’ la piccola casa di un uomo che vive da solo. “Mia moglie sta soprattutto a Bergamo, ogni tanto la raggiungo”. I tre figli? “Uno è ispettore di polizia a Vasto, un altro avvocato d’azienda a Milano, e la terza lavora per l’Onu in zone difficili. In questo momento è a Kabul”. La casa non ha niente a che vedere con i casolari borghesi della Maremma o di Capalbio. Non c’è il cotto, non ci sono i pini marittimi, non c’è la lavanda, né quell’aria rustica e insieme assai signorile delle case dei giornalisti e dei politici romani che abitano la campagna toscana. “Questa è una Toscana povera”, dice lui. Assai povera. E assai rustica. La casetta è semplice, da contadino benestante, d’altra parte la campagna che si vede fuori è sua, “che bracciante non sono anche perché mi fa male la schiena e sono anziano”. Anche se ha davvero le scarpe grosse dei contadini, Di Pietro. E pure le unghie delle mani troppo lunghe. Mi accoglie nella veranda, che è insieme un salottino e uno studio con sedie in ferro e un divano di vimini dai cuscini bianchi. Su un tavolino c’è un vecchio codice penale sgualcito, poco più in là una zappa appoggiata al muro: due vite in una. “Questa casa l’ho comprata da una signora che è morta a più di novant’anni, e non c’era niente: non c’erano i riscaldamenti, non c’era la fogna, non c’era nulla”. E parla del Molise con una punta di malinconia. “Qua sono tutti anziani ormai. Non ci sono bambini né giovani, solo vecchi e pensionati. Non c’è lavoro, sviluppo, infrastrutture. Montenero aveva ottomila abitanti ai miei tempi, ora meno di quattromila. L’agricoltura è un passatempo, non rende. Anche chi coltiva lo fa perché campa di altro, soprattutto di pensioni pubbliche. La gente lavora sulla riviera, a Termoli o a San Salvo, e torna la sera. Non lontano da qua ho una masseria ristrutturata, con cucina, forno, camino, due camere e un bagno. Non voglio affittarla, ma darla a una coppia giovane, di migranti, con figli piccoli, a un euro al mese. Forse i migranti sono gli unici che possono avere voglia di abitare in un posto così. Vorrei tornare a sentire ogni tanto le risate di un bambino. Rinuncio volentieri a cento euro al mese per vedere dei bambini in bicicletta, come quando ero piccolo. Ma non trovo nessuno che ci vuole venire. Vivere in campagna è complicato, lo capisco. Ho chiesto a chiunque: alle associazioni, al parroco, a chi si occupa di cooperazione… ancora niente”. Mi colpisce una cartina catastale incorniciata e appesa alla parete, un mosaico di appezzamenti di terra che sembrano un puzzle. Sono i suoi ventotto ettari di terra, eredità di diciassette lotti paterni poi ampliati. “Anni fa, i giornali, dopo un’inchiesta di Milena Gabanelli. Li scambiarono per cinquantadue case. Capito? Come se avessi cinquantadue appartamenti. Una cosa che mi ha danneggiato enormemente. Ma ho fatto denunce e ho vinto le cause in tribunale”.
Quella cartina è forse una specie di trofeo di guerra. La geografia di una sofferenza. Gli anni della politica non sembrano essere per un bel ricordo. Mani Pulite è la luce, la gioventù della luce, il poter dire: io fui, sono, sarò. Della politica invece parla malvolentieri. Gli chiedo di Romano Prodi, ma balbetta poche frasi insignificanti. Quegli anni sono un alito impalpabile, quasi una patria tenebrosa. Domanda: le sue dimissioni dalla magistratura, a dicembre del 1994, furono motivate dalla scelta di entrare in politica? “Questa è una falsità. Io mi dimisi dalla magistratura perché stavo finendo indagato, e mi dovevo difendere. Non solo dall’inchiesta di Brescia, da cui sono stato assolto mentre è stato condannato il mio accusatore. Ma pure da tanto altro. C’erano dossier enormi contro di me. Avevano messo insieme il vero e il falso, creando il verosimile”. E qui Di Pietro cita un’intervista di Rino Formica, immagino quella rilasciata a Francesco Verderami sul Corriere della Sera. “Formica ha confermato l’esistenza di intercettazioni ordinate da Craxi e autorizzate dall’allora capo della polizia Parisi, eseguite dal Sisde. Mi stava arrivando addosso un terremoto. Sapevo che dovevo finire l’inchiesta di Mani Pulite, perché non potevo lasciarla a metà, ma sapevo anche che dovevo dimettermi dalla magistratura per evitare di fare la fine di chi avevo inquisito. Mi tolsi la toga, diventai l’avvocato di me stesso. Dopo due anni di battaglie legali, in cui fui prosciolto e i miei accusatori condannati per diffamazione mi ritrovai a quarantasei anni senza arte né parte. Senza un lavoro. Senza uno stipendio”.
Così inizia per lui la politica. “Avevo capito la parte malvagia della politica, avevo visto cosa non devi fare, e ho deciso di impegnarmi”. Un’esperienza che non è stata felice? “Da quando ho smesso, campo meglio”. I tradimenti di quegli anni lo segnano ancora. “De Gregorio fu corrotto per lasciare l’Idv, ed è stato condannato in via definitiva”. Lei la gente la sceglieva proprio male. “Non che oggi la scelgano meglio, guardi”. C’erano anche i mitologici Scilipoti e Razzi. “Sì. Ma in quella legislatura ci furono decine e decine di cambi di casacca, però uno si ricorda solo Razzi e Scilipoti perché il sistema dell’informazione lo trovava comodo”. Di Pietro pensa che il sistema dell’informazione si sia accanito contro di lui. Ma forse non era accanimento: a colpire l’attenzione era l’immoralità dei moralisti. Li ha perdonati, Razzi e Scilipoti? “Il perdono non c’entra niente. Però Razzi è stato il più cristallino”. In che senso? “Disse una cosa tipo: ‘Vado con Berlusconi per farmi i fatti miei’. Era la pura verità, ma solo lui lo ha ammesso mentre gli altri ammantano la loro decisione di nobili ragioni politiche”. E l’Ulivo cos’è stato? “Un posto dove mi tenevano dentro soltanto perché gli servivo per arrivare al 51 per cento. Ero solo. Quando non gli sono servito più, non hanno visto l’ora di liberarsi di me… Però guardi, la cosa che mi dà veramente fastidio è quando dicono che mi sono dimesso dalla magistratura per fare politica”. E’ lecito pensarlo: non è così? “E invece io nel 1994 rifiutai di farla, la politica”.
L’aveva chiamata Berlusconi. “Ero nel mio ufficio alla procura di Milano e ricevetti al cellulare una telefonata dalla batteria di Palazzo Chigi che mi passò il neo eletto presidente del Consiglio Silvio Berlusconi”. Che voleva? “Mi convocava a Roma”. E lei che fece? “Andai subito dal procuratore Borrelli, il mio capo. E lui mi consigliò di andare e di sentire che voleva”. Così Di Pietro va a Roma. E che succede? “Succede che arrivo all’indirizzo che mi avevano dato, via Cicerone. A Prati. E sulla porta leggo scritto ‘Studio Previti’”. E nel dire queste parole, sulla bocca Di Pietro si disegna una piccola piega strana, come un sorriso sarcastico. “Sono entrato, ho salutato, mi hanno chiesto se ero interessato a entrare nel nuovo governo, e ho detto no, perché ‘faccio il magistrato e voglio continuare a fare il mio lavoro’”. Ma chi c’era in quella stanza con lei e Berlusconi? Silenzio. Le labbra di Di Pietro si contraggono solo un istante, poi assume quell’atteggiamento sorridente e spavaldo di chi vuole mascherare i pensieri più segreti. “Un gruppo di persone”. Chi? “Non glielo dico”.
Finì che lei non entrò nel governo, ma mandò un avviso di garanzia al Cavaliere che stava presiedendo il G8 a Napoli. “Guardi, non ci crederà mai nessuno, ma io nemmeno sapevo che in quei giorni c’era il G8”. In effetti è incredibile. “Lo giuro sulla memoria di mia madre. Tanto che l’avviso di garanzia l’avevo mandato a Roma”. Lo pubblicò il Corriere della Sera. Praticamente fu il primo di una lunga serie di avvisi di garanzia recapitati a mezzo stampa. Da allora è diventato un classico. “Ancora oggi non so chi ha parlato con i giornalisti”. Nemmeno un’idea? “Solo un magistrato o un agente della polizia giudiziaria poteva saperlo”. A proposito: ora che Berlusconi non c’è più ha cambiato giudizio su di lui? “Le posso dire cosa pensavo di lui quando era vivo”. Prego. “Era né più né meno un imprenditore che ha vissuto nella Milano da bere della Prima Repubblica. Faceva quello che facevano quasi tutti. La differenza, però, è che tutti o scappavano latitanti o correvano a denunciare in procura per salvarsi, mentre lui è sceso in politica. Ha trovato una terza via”. Riduttivo, forse. Ma torniamo al 1994. La volevano tutti, avrebbe anche potuto fare la reclame del sapone di Marsiglia: “Guardate, solo io ho le Mani Pulite”. Ride, Di Pietro. “Ero un prodotto”. Che alla fine viene commercializzato da Massimo D’Alema, cioè dalla sinistra, con la candidatura del Mugello, nel 1996. “Giuliano Ferrara era il mio sfidante, mi prese contropelo, denunciava la mia aura da salvatore della patria”. La inseguiva. Non s’era candidato per farsi eleggere, ma per fare battaglia civile e politica. “Fece una campagna elettorale bellissima. Tutta giocata sull’idea del cortocircuito di un magistrato in politica”.
Dopo di lei quella del magistrato in politica è diventata prassi. Magistrati che si candidano a tutto. Magistrati che indagano in una città, e poi ne diventano sindaci. Lei è stato il primo. “Eh, però mi consenta dire una cosa: io mi ero dimesso dalla magistratura due anni prima”. E qui Di Pietro è ancora una volta sorprendente: “Io ho sempre sostenuto che chi fa il magistrato non può fare come tutti i cittadini. Può fare politica, ma se vuole candidarsi non può più indossare la toga. E se hai fatto politica poi non puoi tornare nei tribunali. Nel momento in cui ti candidi ti sei già messo la casacca di un giocatore, poi non puoi rimetterti la casacca dell’arbitro”. E cosa pensa lei di quei magistrati che partecipano alle manifestazioni di piazza? Ci sono stati dei casi che hanno destato enormi polemiche. “Nessuno mette in dubbio il diritto di un cittadino, anche se magistrato, di poter manifestare. Tuttavia il magistrato ha il dovere non solo di essere imparziale, ma anche di apparire tale. Voglio dire: ma per l’amor di Dio, se stai decidendo sui migranti non puoi essere stato a delle manifestazioni contro i decreti di Salvini sui migranti o andare con le bandiere al molo dove quello aveva fermato le navi!”.
Mi tolga una curiosità: le capita mai di pensare a Bettino Craxi, il gigante abbattuto? Intendo dire: un pensiero umano, personale. E qui Di Pietro fa una pausa. Poi risponde con una punta di quella che potrebbe essere freddezza, o forse è ritegno, chissà, difficile dirlo, ma comunque un sentimento di distanza che lui sembra applicare praticamente a chiunque, a protagonisti e comprimari, persino agli ex colleghi di Milano, insomma a tutte le grandi e piccole figure d’una vita – la sua – che è a tutti gli effetti, nel bene e nel male, un pezzo della storia d’Italia. “Se dovessi pensare a tutte le persone con cui ho avuto a che fare, non finirei più. Abbia pazienza. Altro è se mi chiede che giudizio ho di Craxi”. Me lo dica. “Penso che fece un gesto importante in Parlamento, ammettendo le responsabilità del sistema: ‘Chi è senza peccato si alzi in piedi,’ disse in sostanza. E la storia gli rende giustizia. Ma lo ha detto tardi. Il problema è che quando arrestammo il primo tangentista, Mario Chiesa, Craxi minimizzò: ‘E’ un mariuolo che non ha nulla a che fare con noi’… Vede, uno statista è quello che ci arriva prima, non dopo”. Craxi la considerava una questione politica quella del finanziamento irregolare, non giudiziaria. Il finanziamento irregolare dei partiti era il metodo con cui aveva funzionato la democrazia italiana fino a quel momento. “Craxi è stato condannato. Dagli atti processuali risulta che diverse persone portarono denaro a piazza Duomo nel suo ufficio. Risulta che il suo amico d’infanzia Giorgio Tradati aveva aperto due conti correnti dove c’erano tanti soldi. Non per il partito. Soldi che ancora oggi non si sa che fine abbiano fatto”. Quindi lei ritiene che Craxi non fosse colpevole di finanziamento illecito ma che prendesse i soldi per sé? “E’ accertato che esistevano due conti correnti, di cui uno in Svizzera, pieni di soldi e intestati a un suo amico d’infanzia. Non a Balsamo tesoriere del Psi. Non al partito. Al suo amico d’infanzia. Lei che dice? E mi permetta di aggiungere un’altra cosa: non è vero, come sostiene una certa vulgata, che la magistratura abbia impedito a Craxi di curarsi in Italia. E che quindi abbia contribuito a farlo morire anzitempo. Per prima cosa, Craxi non era in esilio, era latitante. E la procura di Milano ha sempre detto: ‘Torni in Italia, e se i medici lo ritengono vada in ospedale’. Ma lui, per un rispettabile gesto di orgoglio, ha scelto di non tornare se non da uomo libero. Questo va rispettato, sì, ma non si può accusare la procura di Milano di allora di averlo costretto a restare in Tunisia”. Ha visto il film di Gianni Amelio, Hammamet? “No”.
E rieccola, allora, la freddezza. Pudore che evita di esprimere anche i sentimenti più normali? O forse nel vocabolario di Di Pietro non ci sono parole abbastanza sottili, abbastanza profonde da esprimere la complessità di un rapporto come quello con il grande sconfitto della storia. Il gigante caduto, Craxi. Chissà. Forse Di Pietro ha imparato la lezione della vita contadina, che insegna a dare poco e a esigere ancora meno. O almeno così vuole autorappresentarsi davanti a me. Anche se non bisogna indulgere nelle spiegazioni psicoarzigogolate. Resta il fatto che Antonio Di Pietro sia stato un magistrato sui generis. “Intorno ai dieci anni mio padre mi disse: Toni’, ma tu che voi fa’? Intendeva che dovevo scegliere, perché da noi a un certo punto o ti mettevi a zappare la terra o ti facevi prete. Io decisi di andare in seminario”. Ma invece della tonaca poi ha messo la toga. “Perché arrivata la pubertà, avevo scoperto le donne. E la tonaca, a quel punto era chiaro: non era cosa mia”. Quindi? “Quindi emigrai in Germania. A vent’anni lavoravo in una fabbrica di forchette e coltelli, vivevo in una baracca con altri operai di sei nazionalità diverse. Poi la sera andavo a lavorare anche in una falegnameria. Sono orgoglioso di dire che a vent’anni mandavo un mensile a mia madre”. Pausa. Gli occhi gli si fanno liquidi. “Poi quei soldi mia madre me li ha fatti ritrovare tutti. Quando è morta, erano tutti in un cassetto. Aveva comprato buoni del tesoro. Io le mandavo cinquecentomila lire, e lei ne metteva da parte un milione. Mandavo centomila, e lei ne metteva da parte duecentomila. Me li ha fatti ritrovare tutti. Tutti quanti”.
E allora uno se lo deve immaginare, Antonio Di Pietro intorno ai quarant’anni, questo figlio di contadini del Molise depresso, ex operaio emigrato in Germania, ex seminarista di paese, che entra alla procura di Milano alla fine degli anni Ottanta. Con quei magistrati figli della borghesia che fino a pochi anni prima portavano l’eskimo. Giovani giudici colti, di sinistra. e molto benestanti per estrazione familiare come Gherardo Colombo, o figli di medici e di avvocati o addirittura figli a loro volta di altri magistrati come Ilda Boccassini. Tutti convinti, o quasi, che l’impegno in magistratura e l’impegno politico andassero a braccetto. Lui invece? “Io all’università mi sono iscritto a ventiquattro anni. Ero sposato e avevo un figlio”. I suoi colleghi di Milano venivano dalla contestazione studentesca. “Io il Sessantotto l’ho fatto in Polizia. Facevo il commissario e mi infiltravo negli ambienti della mala milanese”. Un alieno.
Chissà se è per questo che parla con un misto di rispetto, e freddezza, anche dei suoi ex colleghi del pool. Siete amici? Eravate amici? “Guardi, ho avuto sempre grande rispetto per i miei colleghi, ma non ho coltivato rapporti di amicizia personale con loro perché vivevamo in mondi diversi. E con rapporti personali diversi. Quindi i nostri incontri erano sostanzialmente incontri di grande collaborazione, ma non di frequentazione al di fuori della nostra attività lavorativa”. Sono passati trentatré anni dall’inizio di Mani Pulite. Avrebbe mai immaginato che Piercamillo Davigo avrebbe concluso la carriera con una condanna definitiva in Cassazione? “Le sentenze si rispettano, e quindi anche quella della Cassazione che riguarda il collega Davigo va rispettata. Ma esprimo a Davigo la mia solidarietà totale perché ritengo che in quella vicenda dovevano essere coinvolti anche altri che invece sono stati lasciati perdere. O si coinvolgono tutti o non doveva essere coinvolto nessuno”. Francesco Greco, anche lui, sul finale della carriera è rimasto impigliato nella vicenda Eni-Nigeria perché magistrati della sua procura sono stati condannati in primo grado per aver nascosto prove che scagionavano gli imputati. “Ma a Greco non è stata contestata alcuna responsabilità penale”. Stop. Di Pietro non aggiunge altro. E si scioglie un po’ soltanto quando parla di Francesco Saverio Borrelli, il suo ex procuratore della Repubblica. “Un galantuomo che deve avere resistito a delle pressioni inimmaginabili in quegli anni”, dice. Poi aggiunge con tono brusco: “Tanto per intendersi, io ero talmente rispettoso nel mio rapporto con Borrelli che non gli davo del ‘lei’. Io gli davo del ‘voi’”. Ma lei dottore degli amici ce li ha? “In questo momento mi sento anche amico suo, per dire. Però, dopodiché, io e lei non ci frequentiamo. Quindi: buongiorno e buonasera”. E allora è così che ci salutiamo mentre cala la sera sulla campagna molisana. Buongiorno e buonasera. Ma non prima di avere preso la bottiglia di Montepulciano.
Salvatore Merlo