Far sentire in colpa le persone che hanno figli fa parte del processo di colpevolizzazione dell’occidente. Parla Gabrielle Cluzel
Gabrielle Cluzel, giornalista, caporedattrice di Boulevard Voltaire, ha pubblicato “Yes Kids. La rabbia di una madre per i nuovi dettami della famiglia” (Fayard). Il Figaro l’ha intervistata.
Il suo libro si intitola “Yes Kids”, in risposta al movimento “no kids”. In che modo questo movimento è intrinsecamente nefasto per la società?
Ha generato un’atmosfera di maternofobia o “puerofobia” che permea l’intera società. Dalle élite parigine alla mia casa di campagna nell’Aveyron, i genitori mi dicono – con rammarico – che la loro figlia non vuole avere figli, suscitando a volte un’incomprensione tra le generazioni. Mi sono chiesta come la psicoanalista Corinne Maier sia arrivata a scrivere un libro come “No kid. Quarante raisons de ne pas avoir d’enfant” (J’ai lu, 2024). Qualche anno fa, parlare di una nascita come di un “evento felice” era un’ovvietà. Ora invece (…) associare la maternità alla felicità è diventato trasgressivo. Ho scelto un titolo inglese in risposta a “No kid”. Elencando quaranta motivi per non avere figli, il testo di Corinne Meier poteva sembrare umoristico. Ma c’è una vera ideologia alla base del libro, che è stato tradotto in undici lingue e celebrato al punto che la Maier è stata incoronata eroina della controcultura dal New York Times… C’è un movimento di fondo, alimentato dalla mentalità “no kids”. Di recente la stampa ha pubblicato alcuni articoli in tal senso, uno dei quali spiegava che avere un figlio è come perdere una casa in termini finanziari! Un altro, più psicologico, si è concentrato sul “rigetto materno”. Il concetto è spaventosamente violento e trascura il fatto che la vera disgrazia è avere un figlio in meno, non in più. Una nascita può essere motivo di preoccupazione, ma non è una disgrazia. Oltre a essere un male per la società, questa mentalità rappresenta un condizionamento insidioso. Se si chiede alle bambine della scuola materna se vogliono diventare madri, tutte rispondono di sì, come mi ha detto un’insegnante. Si dice che la verità esca dalla bocca dei bambini nel senso che sono ancora vicini allo stato di natura, non sono stati formattati dalla società. Il fatto che, in seguito, le donne non desiderino più avere figli dimostra che il discorso femminista si sbaglia nel sostenere che le donne sono condizionate alla maternità dalla società. Le ragazze perdono il desiderio di avere un figlio man mano che crescono.
Lei ritiene che le donne subiscano la pressione di “controllare la loro fertilità”. Cosa intende dire con questo?
Alle donne viene fatto credere che la fecondità sia un’escrescenza ingombrante. Dovrebbe essere trattata come una condizione cronica per tutta la vita, o eliminata radicalmente con la sterilizzazione tubarica (coperta dalla previdenza sociale, anche per le giovani di 18-25 anni). Nel nostro paese, nulla è predefinito: ci sono passerelle negli studi, riconversioni professionali, divorzi… Ma si lascia che le ragazze prendano decisioni radicali a 20 anni senza sapere come si sentiranno in seguito, a soli quattro mesi dal primo consulto medico. Invece di svilupparsi in tutti i sensi, dal cervello all’utero, si dice alle donne di rinunciare alla maternità. E’ un po’ come la favola del corvo e della volpe: l’uomo incoraggia la donna a rinunciare alla maternità mentre lui può toglierle questo privilegio – la Caf (organismo pubblico che eroga prestazioni familiari, ndr) parla di uomini incinti. E’ sorprendente che le femministe, così reattive nel denunciare il patriarcato, non vedano questo come uno dei suoi trucchi. Si dovrebbe invertire questo discorso dominante: i luoghi comuni sono diventati trasgressioni, quindi dobbiamo ripeterli. Sì, la maternità è faticosa, ma è l’incontro più bello che si possa fare nella vita. In “No kid”, Maier elenca le situazioni che sfiniscono un genitore, come se i bambini dovessero avere diciotto mesi per il resto della loro vita. Ma vederli crescere è una gioia immensa.
Secondo lei, se Simone de Beauvoir avesse avuto dei figli, avrebbe cambiato la sua dottrina. In che modo la maternità ha stravolto la sua vita dal punto di vista intellettuale?
Simone de Beauvoir, anche se non ha avuto figli, si è espressa sulla maternità. Agli uomini viene invece negato il diritto di esprimersi sulle questioni legate al femminismo perché non hanno un utero, ma in un certo senso si potrebbe quasi dire la stessa cosa di Simone de Beauvoir. Il problema non è tanto il fatto che abbia parlato di un argomento che non ha vissuto, ma l’influenza che ha avuto. Marguerite Duras, dal canto suo, ha perso un figlio e ne ha compreso il prezzo: “Non avere un figlio è come ignorare la metà del mondo”, ha detto Duras. La maternità è un’esperienza incarnata: cambia la vita di una donna, esaltandone i sentimenti, i sensi, un po’ come la sessualità in un altro registro. E’ un’esperienza fisica, non intellettuale. Il movimento femminista ha deciso, attraverso i suoi discorsi, di privare le donne di questa esperienza fisica. Si incoraggiano le persone a viaggiare, a incontrarsi, a leggere, perché sono esperienze meravigliose, ma non si promuove più questa esperienza che è specifica delle donne. Eppure, anche nelle civiltà che opprimono le donne, il privilegio di essere madre non è mai stato messo in discussione.
Lei ritiene che le madri, soprattutto quelle delle famiglie numerose, siano la minoranza più discriminata. In che senso? In cosa consiste secondo lei questa disuguaglianza?
Ogni anno si proclama che l’8 novembre, alle 16.48, le donne debbano smettere di lavorare perché sono pagate meno degli uomini. Eppure le statistiche in merito sono buone. A parità di tipo di lavoro, di mansioni e di tempo, la differenza di retribuzione tra uomini e donne è minima. In compenso, c’è una grande differenza tra uomini e madri, e persino tra donne che non hanno figli e madri. Quindi è la madre a essere vittima di una “discriminazione”, per riprendere la terminologia. E’ quasi intuitivo: ha dovuto mettersi in secondo piano, il che ha rallentato i suoi progressi, a meno che non abbia scelto di lavorare part-time o di riorientarsi professionalmente verso un lavoro che richiede meno tempo. Le madri sono state assenti dai dibattiti sulla riforma delle pensioni, anche se avrebbero dovuto esserne il fulcro. Molte donne politiche hanno figli e dicono ai tabloid che è meraviglioso, ma poche difendono le madri per paura di essere bollate come pétainiste. Le madri sono le vere discriminate, ma nessuno si preoccupa di loro, tanto meno il discorso femminista dominante, che è privo di qualsiasi difesa della maternità. Quest’ultima è vista come un vizio: le madri sono compatite come gli alcolisti. Eppure la maggior parte delle donne ha figli: difendere le madri significa, su larga scala, difendere le donne. Inoltre, questa colpevolizzazione della maternità si iscrive nella colpevolizzazione dell’occidente. E’ il culmine della cancel culture. (Traduzione di Mauro Zanon)