La severità dello strumento penale viene percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi. Ma bisogna studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte poltico-criminali
La proposta di introdurre nel codice penale un’autonoma figura di reato di femminicidio e il dibattito che ne è scaturito, ravvivato dai drammatici fatti di cronaca delle ultime ore, offrono l’occasione per chiedersi se davvero il troppo (e male) punire rappresenti esclusivamente il frutto di spregiudicati calcoli elettorali e vada pertanto ricondotto alle sole responsabilità del decisore politico o se, sullo sfondo, si possano intravedere matrici ulteriori. Con la consueta profondità di analisi, Giovanni Fiandaca sta denunciando ormai da tempo, anche su queste pagine, il dilagare, apparentemente inarrestabile, di una coazione ad ampliare la sfera del penalmente rilevante attraverso la frenetica introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, mossa dall’obiettivo di inseguire continue emergenze e placare discutibili ansie securitarie. Il fenomeno, efficacemente ribattezzato “bulimia punitiva”, si traduce in una produzione normativa schizofrenica, ancorata non a effettivi bisogni di tutela ma alla ricerca spasmodica di rendite politico-elettorali: nuovi reati e aumenti di pena quali strumenti di acquisizione del consenso, diretti a massimizzare l’impatto simbolico del loro annuncio per sedare bisogni emotivi di sicurezza, offrendo all’opinione pubblica la rassicurante sensazione di tenere tutto sotto controllo. La severità dello strumento penale viene così percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi, a prescindere dall’effettiva idoneità a risolverli e dalle concrete ricadute di ordine sistematico (ingolfamento del catalogo dei reati, sovraccarico della macchina giudiziaria, drammatica moltiplicazione dei costi economici e umani di indagati destinati a sofferenze preventive inutili e sproporzionate).
Al cospetto di questo scenario – e tutto ciò condiviso – occorre provare a fare un passo avanti, guardando al di là del comodo refrain delle colpe della politica e dello scadimento del modello rappresentativo. Sia chiaro: il panpenalismo è un fenomeno degenerativo serio e attuale delle società contemporanee, alimentato dalla combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione verso la creazione di nuovi reati; come ben sappiamo, si tratta di fattori che possono prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa, alimentando la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive. Senonché, allontanandoci dalle contingenze e ricordando che i rappresentanti non sono altro che lo specchio dei rappresentati – e dunque le rispettive responsabilità non possono essere disgiunte –, non si può fare a meno di considerare come questa moderna passione punitiva corrisponda a un sentimento radicato nella società di oggi, nella quale – ammettiamolo – il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta e la ricerca della verità diviene una formula vuota e stereotipata dietro la quale si cela la ricerca di un capro espiatorio da consegnare quanto prima alla dittatura del vittimismo; un’imperante tirannia, quest’ultima, che, abbondantemente enfatizzata dalla proiezione mediatica, pervade la quotidianità in nome del deresponsabilizzante canone per cui se qualcosa non è andata per il verso giusto è sempre colpa di qualcun altro, che va (quanto prima) individuato e (penalmente) sanzionato.
Se davvero si vuole provare ad arginare la deriva, prendendo sul serio l’esortazione di Giovanni Fiandaca a una “pedagogia collettiva” che apra alle ragioni psicosociali, occorre allora che studiosi e tecnici del diritto si confrontino anzitutto sull’esatta dimensione del fenomeno, indagando a tutto tondo le cause di questa inflazione penalistica. Non basta la semplice presa d’atto che punire troppo non rende la società più sicura, puntando il dito solo verso gli opportunismi della politica. La prospettiva, da cui muovere e su cui investire, è più ampia; certamente impone di diffondere i limiti dello strumento penale e di chiarire alla politica e ai cittadini, al di fuori della contrapposizione ideologica, i termini effettivi della capacità preventiva e orientativa delle fattispecie incriminatrici. Ma per non risultare vano, l’impegno deve essere accompagnato da uno sforzo ulteriore: studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte politico-criminali e la stessa fisionomia del processo penale. Richiamare il potere legislativo e giudiziario a non assecondare l’ansia collettiva di individuare – sempre e comunque – un responsabile rappresenta solo il primo passo.