Chi sono i nuovi ricchi americani (e non solo) che comprano casa in Italia

In fuga da Londra, da Parigi o dall’America, ecco chi arriva in Italia. Arnault e Pinault a Milano, ma Musk a Roma non si compra niente

C’è l’overtourism dei ciabattoni, certo, ma poi c’è l’overtourism dei ricchi, che magari porta più indotto ma non è meno molesto. Così tutti noi aspettiamo con timore lo sbarco di Jeff Bezos e della popputa sua prossima consorte a Venezia (ma qualcuno li avrà avvertiti del tasso di umidità del tremila percento?). Come si sa il novello sposino ha reclutato tutti i taxi di Venezia per le nozze che non si annunciano minimaliste (e sempre se l’ex giornalista televisiva Lauren Sanchez sopravviverà alla missione spaziale che la vedrà, in un equipaggio di sole donne, compresa Katy Parry, partire in un piccolo viaggetto, una specie di addio al celibato orbitale, che il 14 aprile la manderà nello spazio su un razzo del suo amato, che è rivale missilistico di Musk).



O forse Bezos ha deciso di eliminarla così, magari facendola brillare nello spazio: del resto lui la sposa un po’ obtorto collo: i due avevano una relazione segreta, un giornale amico di Trump lo ricattò di far uscire le foto, lui rispose: “publish and be damned”, come il Duca di Wellington, ed eccoci qua, lui neo-trumpiano e lei sposa. Bezos per ora comunque non si compra niente in Italia, mentre per gli altri è tutto un mettere le mani su “trophy asset” e “pezzi unici”, dell’immobiliare. Mentre il mondo casca a pezzi, alcuni bilionari siliconvallici si regalano tenute alle Hawaii e in Nuova Zelanda, compreso l’immancabile bunker, altri pensano sia più bello aspettare la fine del mondo all’Harry’s Bar (sempre se trovate posto). In fondo ci saranno sempre Venice, e Florence e Caprì, pronunciati in originale, dove installarsi, così l’Italia diventa una enorme White Lotus per grandi ricconi.

A Venezia sembra di stare in un perenne romanzo immobiliare jamesiano, con americani oggi come allora folgorati sulla via dei peoci e delle vecchie aristocratiche coi palazzi che affondano. E jamesiano è l’ultimo romanzo prettamente immobiliare di David Leavitt che si chiama bizzarramente “Il decoro” ma in originale era “Shelter in place” cioè appunto rifugio. Storia di una nevrotica newyorchese, Eva, stravolta dalla prima vittoria di Trump, che decide di comprarsi uno “shelter”, un rifugio nel caso vi sia da abbandonare il Paese per golpi o rivoluzioni (profetico, uscito 5 anni fa). Eccola dunque a Venezia, dove una similcontessa squattrinata decide di vendere. Da lì comincia tutta una serie di guai che fanno quasi rivalutare (almeno a noi che leggiamo) l’America di Trump. Soprattutto usi immobiliari a lei sconosciuti, a partire dall’usufrutto (ci sono molte pagine sul tema dell’usufrutto). Mentre per Garzanti è appena uscita “La principessa d’argento”, di Rebecca Godfrey, saga dei Guggenheim e della loro nipote Peggy (lo zio era Solomon R. Guggnheim, quello dell’omonimo museo newyorchese) che si installò a palazzo Venier dei Leoni (grande famiglia con tre dogi, forse non imparentati con la presentatrice tv), in scia a una grande tradizione di stranieri che non smettono di piazzarsi in laguna. Il palazzo era anche un celebre “incompiuto”, essendone stato realizzato solo il piano terra, dei tre previsti. I progetti partirono a metà 700 e l’edificio doveva essere grandioso a testimoniare lo status della famiglia, quella del Sebastiano Venier che aveva guidato la flotta a Lepanto. Ci sono due leggende sul blocco dei lavori: una è che i dirimpettai Corner della Ca’ Granda, potente famiglia che possedeva l’omonimo palazzo, temendo l’oscuramento della vista, abbiano fatto in modo che l’edificio non si realizzasse; l’altra è che gli eredi della famiglia Venier ormai impoveriti (Lepanto era passata da 200 anni, nel frattempo nel 1797 la repubblica di Venezia aveva finito di esistere) avessero trovato un escamotage; costretti dal testamento paterno a costruire un palazzo, che risplendesse la grandeur di famiglia, costruirono, sì, ma non portarono a termine (portare a termine non era stabilito dalle ultime volontà). Altri drammi immobiliari arrivarono con un’altra inquilina, la marchesa Luisa Casati, che nel 1910 comprò il palazzo in stato di abbandono, e vi risiedette fino al ’24, coi famosi ghepardi nel giardino affacciato sul canal grande. Poi finì i soldi pure lei, e nel ‘48 arrivò Peggy.



Meglio, talvolta, l’affitto. A palazzo Brandolini, oggi Diane von Fürstenberg già moglie di Egon, inventrice del vestito a vestaglietta o “wrap dress”, abita in un condominio che meriterebbe una serie (la novantottenne sorella dell’Avvocato Cristiana Brandolini Agnelli; dei Rothschild, l’ex direttore del Louvre Pierre Rosenberg) e fa su e giù con New York (aiuta l’estenuante commuting la flotta d’aria e di mare del secondo marito Barry Diller). Ha naturalmente una sua fondazione, perché se a Venezia non hai una fondazione non sei nessuno. Il magnate filantropo Nicolas Berggruen continua a comprare palazzi per la sua. Ma ne aprono di sempre nuove: anche l’artista turco, vicino al sindaco di Istanbul incarcerato da Erdogan, Ahmet Güneştekin, ha comprato per 10 milioni di euro il seicentesco Palazzo Gradenigo per farne la sede della propria fondazione; in questi giorni apre anche la nuova fondazione AMA del milionario belga Laurent Asscher in una ex fabbrica di sapone a Cannaregio).

Ci sono poche fondazioni ma il mare è più limpido in Costa Smeralda. E in Sardegna è stato battuto un altro record, per la villa più cara che sia mai stata venduta in Italia: per 160 milioni di euro si è comprato una casa a Romazzino già appartenuta a Henry Ford II, nipote dell’inventore della moderna automobile, e poi dello sceicco Yamani, ministro del Petrolio saudita. La prestigiosa dimora vanta 2,3 ettari di parco, un fronte mare di 350 metri, 28 camere da letto e 30 bagni: l’ha comprata un 38 enne dell’Iowa, tale Brendan Blumer, uno dei nuovi ricchi delle criptovalute, che ha costruito una fortuna stimata tra i 6 e i 700 milioni di dollari prima coi videogiochi poi appunto con le crypto. Rimane sul mercato invece Villa Certosa, la Arcore sur mer di Silvione Berlusconi, che si dice sia in vendita per mezzo miliardo e ancora non ha trovato compratore nonostante la ridda di voci (dal sultano del Brunei a Bill Gates).

A Milano, si può fare volendo il bagno nella Martesana tra le nutrie e l’aria è quella che è, ma nonostante tutto è il rifugio dei ricconi che non hanno pace. E’ notizia degli ultimi giorni che l’uomo che ogni tanto è il più ricco del pianeta, Bernard Arnault, forse si trasferirà nella Casa degli Atellani, il compound in stile neorinascimentale di corso Magenta rifatto da Portaluppi e già luogo di leggendarie feste con risotti e gin tonic nel pratone by Piero Maranghi, dove potevi trovare da Bianca d’Aosta a Fabrizio Palenzona a Milena Gabanelli. E la Vigna di Leonardo che secondo la leggenda il 25 settembre 1490 Ludovico il Moro aveva regalato al nobile Signor Giacometto di Lucia dell’Atella, suo cavaliere e intimo scudiero. Sopravvissuta a tutto e a tutti per quattrocento anni, anche a Portaluppi che voleva farci sopra un bel campo da tennis. Sempre misteriosa la cifra dell’acquisto, si disse sui duecento milioni di euro, mai confermata, pare che Arnault ci voglia proprio abitare, e lo confermano gli enormi lavori in corso con ponteggi e camion che vanno e vengono. Arnault sarà rimasto rapito dallo stile Portaluppi, che in altri edifici inventa quel Bauhaus milanese coi soffitti a fulmini spezzati (aveva cominciato progettando centrali idroelettriche, ma il fulmine significa anche la scossa, di quell’Italia e quella Milano lì che esplode, i roaring twenties con la cassoeula).

Questi nuovi anni Venti vanno meno bene a un altro francese da esportazione: François Pinault, patron dell’altro gruppone, Kering ex Ppr. Pinault di Pinault ha messo a segno l’acquisto più sconvolgente del pur peculiare mercato milanese. Un miliardo e tre per un solo palazzo, anche se certo non un palazzo qualsiasi: in via Montenapoleone, epitome stessa del lusso, indirizzo che subito evoca la saga dei Vanzina con questi nuovi ricchi alla conquista della città (simmetrici delle gintonerie dei nuovi Yuppies). “Kering: e vai fuori di gamba!”. Ma Kering forse ha fatto il passo più lungo della gamba, e comunque in un anno ha perso quasi la metà del suo valore di Borsa, con la Gucci che un tempo era la sua vache d’or vacilla, e Pinault ora cerca “soci” cui rivendere almeno un pezzo del costoso mammozzone. Dopo il Salva-Milano, il Salva-Pinault.

Uscendo fuori porta, non trova acquirenti per ora il villone Ferragnez sul lago di Como forse ormai simbolo della crisi dei due e del male di vivere dell’epoca d’oro dei social, dei roaring twenties milanesi. Si battono altri laghi, si riscopre il Maggiore (“sono tornati gli americani”, scrive La Stampa), sul Garda da un po’ alligna Leonardo Di Caprio con la nuova morosa locale, la modella Vittoria Ceretti, e tutto fa ben sperare, in un luogo bellissimo che non ha bisogno di testimonial, però basta un niente che il Prestigioso Residente Estero arriva e ti salgono tutte le quotazioni. Qui un tempo c’era D’Annunzio, e Di Caprio è andato in visita al Vittoriale dal suo boss Giordano Bruno Guerri; ora sul Garda c’è il distretto della patatina, con i proprietari di Amica Chips e Pata Snack tra i vari imprenditori che hanno qui la loro Mar a Lago, insieme ai padroni di Calzedonia e altre fattive prosapie locali. E poi a Desenzano c’è la tomba del Dogui, Guido Nicheli quello del “giro di Rolex”. Ma Di Caprio alloggerebbe spesso addirittura a Marcheno, in Val Trompia, dove ha i parenti la fidanzata, luogo di fabbriche e acciaierie, noto anche per il “delitto della fonderia”, col tizio incenerito nel camino della fabbrichetta. Insomma, una star di Hollywood porterebbe a un fantastico rebranding territoriale. Ma non c’è solo l’attore losangelino: secondo il LA Times c’è una vera fuga di suoi concittadini verso, se non la Val Trompia, l’Italia in genere. La seconda elezione di Trump e l’incendio che ha distrutto mezza città hanno contribuito molto: Marco Permunian ha un’agenzia che dà assistenza agli americani e il 25 per cento dei suoi clienti vengono dalla California, riporta il Los Angeles Times. Tanti come sempre vanno a Milano, la città che ospita la metà dei ricchi (si calcola che siano 4.500) che usufruiscono della cosiddetta “Legge Renzi” cioè pagano una flat tax di 200 mila euro l’anno qualunque reddito e patrimonio abbiano (curioso che in vent’anni di dibattito estenuante in Italia sulla flat tax, si sia realizzata solo quella per gli stranieri, non per gli italiani). Ormai all’ombra del Duomo quando si vede un signore o una signora benvestiti che parlano in inglese o francese a passeggiare e senza l’aria del turista sorge sempre il sospetto: sarà uno dei sibaritici nuovi arrivi. Che scelgono anche posti non ovvi: Monza per esempio sta vivendo un revival perché ha buone scuole (la presenza di scuole internazionali è fondamentale per la prole di questi potenti) e i nuovi emigrés scoprono che una villa del 700 costa meno di un bilocale a San Francisco, e pure senza homeless. Certo, l’aria è meno salubre, non c’è il Golden Gate ma il Ponte sulla Ghisolfa, ci sono pure i maranza, ma le recenti retate di questi giorni di bande di borseggiatori forse hanno decimato il fenomeno, e poi questi nuovi milanesi non prendono molto la metropolitana. Sorgono invece tutta una serie di servizi, hotel e ristoranti e molti club (al Cipriani vanno Di Caprio, unico a cui è consentito tenere il cappellino, ma anche l’immaginifico Zampolli inviato globale di Trump). E poi raduni più specifici come Hangar Q, una specie di grande cucinona sulla via per Linate dove chef stellati vengono convocati a preparare pasti espressi per i jet privati (ma anche un club dove si tengono fondamentali eventi per i soci). Molti sono poi in fuga da altre città: con la Brexit Parigi è diventata Londra e Milano prova a diventare Parigi (dal numero di francesi siamo sulla buona strada). In tanti fuggono dalla capitale inglese anche per le tasse, ora che da inizio aprile è stato abolito il vecchio regime dei “non dom”, cioè gli sgravi per persone che non sono domiciliate nel Regno Unito, e dunque potevano non pagare tasse sui proventi esteri. Ma adesso sì, dunque ecco il fugone. Secondo la Bbc almeno 10.000 milionari hanno lasciato il Regno Unito in vista della mazzata. Tanti di questi sono anche italiani della comunità finanziaria che sono tornati a Milano, e giù dunque altri ricconi che si contendono la piccola città che tra un po’ sembrerà un emirato e dovrà per forza allargarsi alle città contigue dove del resto già sorgono avamposti del suo il Salone del Mobile, tanto la città è “tutta esaurita”. Si andrà, è chiaro, verso gli Emirati Arabi Milanesi con le città limitrofe.

E a Roma e dintorni ? Si è rivelato un pesce d’aprile la notizia secondo cui Elon Musk sarebbe stato pronto a comprarsi l’aeroporto di Rieti, per farci una base aerospaziale. Secondo Rieti Life, “Musk ha acquistato l’intero quartiere di Madonna del Cuore fino ad arrivare a via Lama, a Quattrostrade dove ci sarà un presidio dei Marines americani. Nella stessa operazione, il grande Elon ha rilevato già un enorme capannone sito in via Salaria, dove sorgerà una fabbrica di motocicli, monopattini e tricicli Tesla che daranno lavoro a più di cinquemila persone. L’aeroporto sarà inaugurato da una grande festa con Dua Lipa e Tony Effe e Taylor Swift”. Vabbè. Però nel mondo della surrealtà di oggi poteva essere benissimo una notizia vera.

Musk non ha ancora comprato niente, nella realtà, in Italia. Ma dopo essersi liberato di qualunque proprietà negli Stati Uniti, questo zio d’America un po’ astronauta un po’ picchiatello viene tirato in ballo in qualsiasi fantasiosa operazione: da uno chalet in Alto Adige al castello di Bibbiano (parlateci di Musk a Bibbiano!). Adesso che è dato in uscita dal “Doge” di governo, dopo la breve e spericolata permanenza alla Casa Bianca, più che un palazzo dogale a Venezia potrebbe garbargli uno degli asset più ambiti della Città eterna, il Casino Ludovisi dalle parti di via Veneto. Unico immobile esistente al mondo con un affresco di Caravaggio, oggetto di infinite beghe famigliari ancorché principesche, e di aste giudiziarie, adesso la grande mostra a Palazzo Barberini potrebbe fargli un bello spot. Protetto da ampi muraglioni, può resistere ad attivisti anti-Tesla. E il giardino è abbastanza ampio per farci un bell’orto comodo anche per il fratello ecologista e chef Kimbal, quello col cappellone da texano, che sta sempre a Roma. Volendo, ci sta pure una base lancia razzi: un gadget che per questo tipo di clientela equivale forse alla leggendaria tavernetta degli anni Ottanta.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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