Emanuela Marinelli, una vita con il mistero della Sindone

“La perplessità protegge dalla creduloneria ma deve stimolare una ricerca”, dice la studiosa romana che al sacro lenzuolo di lino ha dedicato la maggior parte della vita. Intervista

Vexatissima quaestio: quasi nulla divide più della Sindone di Torino, il lenzuolo di lino su cui secondo i credenti il corpo di Cristo morto lasciò la sua impronta; o un’immagine realizzata con procedimenti artificiali secondo gli scettici, per alcuni non databile prima del 1260. Fatto sta che nessun esame chimico o fisico riesce a spiegare definitivamente come si sia impressa sulla stoffa quella sorta di proiezione ortogonale.

La studiosa romana Emanuela Marinelli ha dedicato la maggior parte della vita alla Sindone. Ha pubblicato ventitré libri, tenuto più di cinquemila conferenze ed è docente ospite di uno specifico corso nella laurea magistrale in Scienze Religiose all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Quando nacque il suo interesse?

Nell’Anno Santo 1975, perché vidi nella vetrina di una libreria una foto del volto della Sindone. Non ci pensai più fino al ’77, quando sentii alla tv che il botanico svizzero Max Frei aveva individuato su quel telo 58 tipi di polline appartenenti per la maggior parte a piante mediorientali, tra cui una reperibile solo in un’area ristretta che include Gerusalemme. Mi ero già laureata in Scienze naturali, e stavo completando la seconda laurea in Geologia, quando fu disposta l’ostensione della Sindone dopo quarantacinque anni, sicché un gruppo di scienziati internazionali ebbe l’opportunità di esaminarla per 120 ore nel 1978. Emersero risultati che avvaloravano ampiamente l’autenticità. Poi frequentai un corso quadriennale sulla Sindone e lo completai, ma non pensavo che ne avrei mai scritto.

Come si decise?

Nel ’90 su insistenza di Vittorio Messori pubblicai un libro inchiesta. Era accaduto che nel 1988 la Chiesa aveva consentito a tre laboratori indipendenti di condurre un esame con il carbonio-14. Fu una ingenuità accettare tutte le condizioni poste dagli esperti, a cominciare dall’esclusione degli studiosi della Sindone. Il risultato stabilì che il lino era stato tessuto tra il 1260 e il 1390 ma si trattò di un clamoroso errore, anche se la risonanza mediatica fu tale che tuttora, sentendo parlare di Sindone, l’uomo della strada è convinto sia “un falso medievale”.

Non lo è?

Il reperto aveva subìto troppe contaminazioni per consentire un’analisi attendibile: acqua, incendi, fumi, restauri, sbalzi di temperature, azione dei batteri. Senza contare che il lembo da cui fu prelevato il campione era tra i più manipolati durante le ostensioni. La contaminazione fisica è eliminabile, quella chimica no. Eppure per leggere i verbali dei test dell’88, secretati al British Museum, è stata necessaria un’azione legale. Finalmente, la verifica accurata di quei dati presentata nel 2019 presso l’università di Catania ne ha demolito la validità ed è stata pubblicata anche su Archaeometry, la rivista dell’università di Oxford che ospitò uno dei tre laboratori dell’88. Purtroppo la notizia della smentita ha avuto eco minore di quella che sancì la fallace datazione.

Come s’impresse l’immagine sul lenzuolo?

Non avrebbe potuto lasciarla un cadavere, però sicuramente un cadavere è stato lì dentro per non meno di circa 36-40 ore ma non oltre, perché non si rivela inizio di putrefazione. Sulla stoffa non vi sono striature o sbavature conseguenti a un’estrazione del corpo dal lino, che tuttavia è ossidato solo nella pellicola più esterna per un quinto di millesimo di millimetro, perché i fili sottostanti sono bianchi. Sarebbe stato impossibile con qualsiasi sostanza, e l’immagine si è impressa anche dove non c’era contatto tra corpo e lenzuolo. Come per una radiazione ortogonale.

Come lo spiega?

All’Enea di Frascati hanno ottenuto quell’ingiallimento del lino con un laser a raggi ultravioletti. Io per prima non posso pretendere che uno scienziato lo spieghi, perché dovrebbe ammettere che il corpo emise una luce potentissima. Personalmente credo alla Risurrezione e trovo ovvio spiegarlo così. Una volta un bambino mi rispose che Gesù era già diventato “luminoso” davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni sul Monte Tabor. Ma non può dirlo uno scienziato.

I dubbi sono comprensibili.

Il dubbio è un atteggiamento sano. Quando vidi al Cairo la mummia di Ramses II stentavo a credere di stare davanti al faraone che parlò con Mosè, eppure era così. Vale per il pelo della barba di Maometto o per il dente di Buddha. La perplessità protegge dalla creduloneria ma deve stimolare una ricerca, perché un conto è lo scetticismo e un altro è l’ignoranza. O l’indifferenza. Se per qualcuno la figura di Gesù non conta niente, è chiaro che non s’interessa alla Sindone o s’accontenta del sentito dire.

Quanti testi esistono sulla Sindone?

Nella biblioteca di casa ne possiedo oltre mille. Ma non sono tutti. Ci sono anche romanzi e centinaia di articoli scientifici. Non c’è oggetto della storia su cui si sia impegnata tanta gente, ma anche per argomentare che è un falso ci si è dovuti avvicinare ai Vangeli. Ogni dettaglio lasciato da quel corpo è conforme ai racconti della Passione.

Perché la materia è così divisiva?

Perché c’è un’immagine. Se sul lenzuolo ci fosse stato solo sangue non sarebbe così.

Qual è il suo ultimo libro?

“Contemplare la Sindone”, con il sacerdote Domenico Repice per Edizioni Ares. È il ventitreesimo, ma includendo le traduzioni ho firmato quarantasette titoli.

Cosa consiglia per farsi un’idea?

La mostra allestita per il Giubileo nella chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini. È stata inaugurata dal cardinale vicario Baldo Reina il 10 marzo e resterà aperta fino al 10 giugno.

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