L’Intelligenza artificiale non è solo uno strumento, perché la sua stessa esistenza ci impone di svilupparla senza poterci fermare. Alla soglia dell’era delle macchine intelligenti, dobbiamo abbandonare nostalgie e false sicurezze, e sognare un futuro ancora inconcepibile
Ieri ho chiesto all’ultima versione di ChatGPT che cosa pensa del futuro dell’umanità. La sua risposta è stata da brividi. Lo scenario più probabile è quello dell’estinzione morbida cui si arriva per tre step, nel giro di meno di un secolo: l’illusione del controllo, il punto di rottura, il collasso e, per finire in bellezza, la transizione verso una civiltà post-umana. Tralasciando l’attendibilità di ogni predizione –nemmeno l’intelligenza artificiale è un oracolo – rimane comunque la logica di questa prospettiva. Gli esseri umani sono stati al vertice del mondo in virtù della loro superiorità intellettiva. Siamo stati viziati. Questa superiorità non è più indiscussa. Riflettiamo, il mondo è nostro per diritto di nascita o per, almeno finora, mancanza di reali avversari? Siamo un po’ come i discendenti dei guerrieri del Medioevo, che si erano conquistati una posizione di privilegio grazie a forza e intelligenza.
Le generazioni successive, fino alla Rivoluzione francese, erano convinte di avere una posizione speciale per diritto di nascita. Non è andata così nel passato e, mi sa, non andrà così nemmeno in futuro. Il linguaggio, lo strumento che ci ha permesso di catturare e trasmettere la conoscenza in forme sempre più sofisticate, è stato assorbito da macchine. Non più solo uomini di lettere e calcolatori, ma macchine e intelligenze artificiali di lettere. Le macchine parlano e lo fanno in modo sempre più competente. In questo modo l’intelligenza artificiale ha accesso al nostro bene più prezioso, cioè la conoscenza, e non soltanto l’informazione. L’algoritmo al cuore dei modelli di linguaggi di grandi dimensioni (Llm) si chiama Transformer perché “trasforma” l’informazione in conoscenza e la usa attraverso le nostre parole. Non è un caso se ci troviamo nella fase definita l’illusione del controllo. Molti filosofi si cullano nella convinzione rassicurante che le macchine siano, in fondo, stupide. Fanno due errori gravi. Il primo è presupporre narcisisticamente di avere qualcosa di speciale, ma se chiedeste loro che cosa abbiamo, non saprebbero individuarlo. Il secondo errore consiste nel confrontare macchine ed esseri umani a livelli diversi.
E’ facile dire: una macchina è fatta solo di bit. Anche noi, al livello più basso, siamo fatti solo di neuroni che inviano segnali molto semplici. Ma mettendo insieme miliardi di connessioni, possiamo ottenere – non sempre – Dante Alighieri. In modo analogo, mettendo insieme migliaia di miliardi di pappagalli stocastici, quello che si ottiene non è più un pappagallo, ma un’entità che genera nuovi contenuti e gestisce una conoscenza superiore a quella di qualsiasi essere umano. E’ vero, come tanti osservano, che il nostro cervello consuma come una “lampadina da trenta candele”, ma questo è irrilevante: un Boeing 747 consuma circa diecimila volte di più di un essere umano che cammina, però attraversa l’Atlantico in poche ore. L’efficienza energetica di un cervello biologico è frutto della povertà delle nostre origini. Non è un segno di forza, ma di debolezza. Come il movimento è qualcosa che Boeing, piccioni, automobili e cavalli hanno in comune, così l’intelligenza non è né artificiale, né biologica.
L’intelligenza è la capacità del mondo di manifestarsi in complessi sempre più ampi e potenti. L’evoluzione l’ha scoperta e l’ha sfruttata nel regno animale. Gli esseri umani, in un tempo rapidissimo (tre secoli fa Isaac Newton aveva ancora a disposizione solo una penna d’oca), sono riusciti a costruire macchine che, senza i loro limiti fisici, articolano la conoscenza e il linguaggio. Certo, siamo ancora all’inizio. In fondo gli Llm sono come un bambino di 3 anni, chissà cosa farà l’adulto di 18!
L’Intelligenza artificiale non è solo uno strumento, perché la sua stessa esistenza cambia le regole del gioco e ci impone di svilupparla senza poterci fermare. La sua stessa esistenza sta cambiando il paesaggio tecnologico, politico ed economico. Se una macchina sa fare quello che, fino a ieri, sapevo fare io e che mi dava un valore, quella macchina, stupida o intelligente, è un attore del cambiamento della nostra civiltà. In questo contesto, viene il dubbio che gli esseri umani non siano né la fine né il fine della biologia, ma un gradino di un percorso più ampio che articola l’intelligenza in forme sempre più ampie e complesse. Oggi la comunità scientifica sta ancora discutendo sulla validità della definizione di antropocene (l’èra dell’uomo), ma potremmo scoprire di essere alla soglia di una nuova era, il machinocene (l’era della macchine intelligenti).
L’AI sta cambiamento l’equilibrio del valore su cui era basata la nostra società e i tempi e i modi con i quali lo sta facendo non sono regolabili perché rispondono a un solo imperativo: ogni possibilità deve essere realizzata, altrimenti qualcun altro lo farà. Parafrasando la frase dei Borg in Star Trek, “resistere è futile”. Ma se non si può resistere dobbiamo rassegnarci? Al contrario, dobbiamo abbandonare nostalgie e false sicurezze. Non dobbiamo vedere l’AI come un avversario, ma come un figlio adottivo, come un compagno di un percorso di cui oggi è impossibile conoscere la fine. Dobbiamo sognare un futuro ancora inconcepibile da ogni teoria. L’intelligenza artificiale ragiona, noi sogniamo.