Cuore e portafoglio. L’unione stabile favorisce benessere economico. Melissa Kearney propone politiche per renderla più accessibile
Dall’altra parte dell’oceano, le donne americane stanno facendo i conti con la realtà sentimentale più frustrante dell’epoca moderna: gli uomini non sono più quelli di una volta. Non studiano abbastanza, non guadagnano abbastanza, non ascoltano abbastanza. Le app di dating promettono infinite possibilità e consegnano invece partite a risiko emotivo con avversari confusi. Il Wall Street Journal racconta una generazione di trentenni stufe: più della metà delle donne single americane dichiara di essere più felice delle loro coetanee sposate. Il matrimonio, per molte, non è più una meta ma un’ipotesi remota, una faticosa lotteria. Anzi: un piano B.
Eppure, un altro set di dati racconta una storia meno emotiva ma più sorprendente: le persone sposate sono, in media, molto più ricche dei single. Lo ha raccontato l’economista Melissa Kearney in un libro importante – “The Two-Parent Privilege” – che, non a caso, ha fatto discutere sia i liberali americani che i conservatori. Perché il punto non è morale ma materiale: il matrimonio crea ricchezza, stabilità e mobilità sociale. E questo vale anche oggi, anche nell’epoca della precarietà sentimentale.
Secondo la Federal Reserve di St. Louis, nel 2022 la ricchezza mediana delle coppie sposate negli Stati Uniti era di 393.000 dollari. Quella dei single (compresi conviventi non sposati) si fermava a 80.000 dollari. Un divario che non si spiega solo con la doppia fonte di reddito, ma anche con tutto quello che il matrimonio facilita: l’accesso al credito, l’acquisto di una casa, la pianificazione fiscale, la costruzione di risparmi a lungo termine. Due persone che si uniscono stabilmente, sommano non solo stipendi, ma anche strategie. E’ come un’alleanza economica oltre che affettiva.
Ma Kearney va oltre. La sua tesi è che il declino del matrimonio stia creando nuove disuguaglianze. Chi si sposa tende a costruire famiglie più stabili, e le famiglie stabili – dati alla mano – sono ancora il miglior veicolo per trasmettere vantaggi ai figli. Questo non vuol dire che una madre single non possa crescere benissimo un figlio. Vuol dire che la struttura familiare influisce sulle probabilità sociali ed economiche. Il punto, per Kearney, è smettere di fingere che tutte le forme siano uguali anche nei risultati, e iniziare a domandarsi come aiutare le persone a scegliere – e sostenere – legami duraturi.
Qui si tocca un nervo scoperto. Perché mentre la narrativa culturale premia l’indipendenza femminile (giustamente) e celebra la maternità single (coraggiosamente), l’evidenza empirica suggerisce che non tutte le solitudini sono uguali. Una donna sola in carriera può cavarsela benissimo. Ma se ha figli, e deve anche essere il solo pilastro economico e organizzativo della casa, il rischio di vulnerabilità cresce. In modo silenzioso, ma inesorabile.
In un passaggio del Wall Street Journal, una donna dice: “Se ho bisogno di compagnia, faccio volontariato al canile”. Frase potente, affettuosa, un po’ triste. Ma anche rivelatrice: l’alternativa al matrimonio non è solo la libertà, è anche la solitudine logistica, la fatica senza condivisione, il mutuo da pagare con una sola firma. In un mercato immobiliare in cui il costo della vita esplode, i single – soprattutto le donne – partono svantaggiati. Non per colpa loro, ma perché la struttura della nostra economia è ancora costruita sull’ipotesi di due adulti che dividono i carichi.
Certo, tutto questo non basta a far funzionare una relazione. Nessuno dovrebbe sposarsi per pagare meno l’assicurazione sanitaria. Ma il punto è un altro: il matrimonio non è solo una questione di sentimenti. E’ anche un’istituzione economica. E come tutte le istituzioni, può essere riformata, sostenuta, resa più equa. Ma non ignorata.
Melissa Kearney invita a fare proprio questo: a ripensare le politiche pubbliche non solo per aiutare le famiglie “tradizionali”, ma per creare le condizioni perché le persone che vogliono una vita di coppia possano davvero permettersela. Per esempio? Con politiche fiscali che non penalizzino il matrimonio, con congedi di paternità veri, con asili accessibili e con un sistema educativo che non produca una generazione di uomini scoraggiati e una di donne esasperate.
Forse, allora, più che rinunciare al matrimonio bisognerebbe ripartire dal matrimonio come ambizione possibile, realistica, concreta. Non come sogno d’amore eterno – quello lo lasciamo ai romanzi – ma come patto di collaborazione tra adulti. In amore, certo. Ma anche nella vita. Perché il cuore è importante, ma pure il portafoglio vuole la sua parte.