Vecchio è bello. Scienza delle rughe e dei capelli bianchi

Lo squalo della Groenlandia vive 400 anni e noi lo studiamo per capire come fa. I ricercatori spiegano perché l’organismo non necessariamente rispecchia l’età che si trova sul documento. Rincuorante

La quantità di selfie che ci si è fatti negli ultimi anni e l’autopromozione incontrollata di sé stessi, della propria vita e delle proprie attività stanno facendo pensare che il narcisismo si stia trasformando da patologia a necessità. Pur prendendosi qualche licenza in ambito psichiatrico – dato che il disturbo narcisistico di personalità non implica solamente una smodata ammirazione di sé, ma anche mancanza di empatia e disregolazione emotiva, della rabbia e dell’aggressività – non è difficile rendersi conto di quanto i sostenitori di questa ipotesi abbiano colto nel segno. Per capirlo è sufficiente che ognuno osservi la vita che conduce. Recriminazioni narcisistiche a parte, esiste una condizione alla quale, per quanto ci si impegni e pur considerando l’importanza che l’estetica ha per noi in questo momento storico, difficilmente si riesce a trovare rimedio mantenendosi attraenti: la vecchiaia. Come accade per altri fenomeni che ci riguardano da vicino e che diamo per scontati, dare una definizione precisa di vecchiaia e invecchiamento non è affatto immediato. Cosa significa invecchiare? Si inizia a invecchiare appena si nasce oppure l’invecchiamento è un processo che inizia da una certa età in poi? Quali cambiamenti si verificano nel corpo di una persona anziana? E ancora: perché alcuni esseri viventi come lo squalo della Groenlandia riescono a vivere centinaia di anni mentre altri devono accontentarsi di pochi stentati giorni? Andiamo con ordine.

La selezione naturale è efficace nell’eliminare le mutazioni dannose che si manifestano fino all’età della riproduzione. Quelle tardive le sfuggono



La comunità scientifica è piuttosto concorde nel sostenere che la vecchiaia consiste in una serie di variazioni a livello molecolare, cellulare e sistemico. Questo significa che crescendo l’organismo si modifica e che questi cambiamenti sono associati a dei segni distintivi osservabili, misurabili. Una recente revisione della letteratura intitolata proprio Hallmarks of aging: An expanding universe (“I segni distintivi dell’invecchiamento: un universo in espansione”), scritta da ricercatori provenienti da università e istituti di ricerca spagnoli, francesi, tedeschi e inglesi, tenta di fare il punto della situazione su questo argomento. Gli autori premettono che individuare i mutamenti di un organismo che invecchia è un’operazione in parte arbitraria, dal momento che i segni distintivi dell’invecchiamento si influenzano vicendevolmente. Tuttavia, un metodo affidabile per riconoscerli deve tenere in conto tre semplici regole: il segno distintivo in questione deve peggiorare con l’avanzare dell’età, deve velocizzare l’invecchiamento se lo si aggrava artificialmente e deve rallentarlo se lo si risana con un trattamento. Semplice no? I ricercatori ci dicono anche che lo scarto tra età biologica e cronologica riflette proprio l’aggravamento o il rallentamento di questi segni distintivi. Ciò significa che l’organismo non deve necessariamente rispecchiare l’età che si trova sul documento di riconoscimento. Rincuorante. Quindi, dietro alla perdita di massa muscolare, all’aumentare delle rughe e del declino cognitivo cosa si trova? Perché tutto ciò accade? Le cause individuate in questo lavoro sono dodici, e quasi tutte hanno a che fare con il modo con cui le cellule e il dna si modificano con il passare del tempo. Le cellule, ad esempio, per la loro sopravvivenza producono proteine e a lungo andare se ne possono accumulare di dannose o tossiche, un fenomeno noto come perdita della proteostasi. Per quanto concerne le cellule, un’altra causa di invecchiamento riguarda la capacità che queste hanno di riciclare le parti danneggiate, un processo, noto come autofagia, che con l’età si deteriora. Sul dna invece, ciò che porta una persona a invecchiare ha a che fare con il modo con cui questo si replica. Ogni cellula nel corso del suo ciclo vitale duplica il dna contenuto al suo interno, per poi dividersi in due cellule identiche. Peccato che, replicazione dopo replicazione, nel dna si generino dei piccoli errori e, sebbene il corpo abbia sofisticati meccanismi di riparazione, con il tempo alcune mutazioni possono accumularsi alterando la funzione dei geni (cioè delle parti di dna). Naturalmente, questo fenomeno non è un toccasana per il corpo. Uno studio pubblicato su Nature pochi mesi fa mette in discussione la linearità dell’invecchiamento: gli autori di questo lavoro sostengono che invecchiare sia un processo che si verifica a scatti. Ciò avverrebbe perché “sebbene molti studi abbiano esplorato i cambiamenti lineari durante l’invecchiamento, la prevalenza delle malattie legate all’invecchiamento e il rischio di mortalità accelerano dopo specifici punti temporali […]”. Quali? Lo studio è stato eseguito su un campione di 108 partecipanti sani, di età compresa tra i 25 e i 75 anni. E’ emerso che “una sostanziale disregolazione” avviene “in due momenti principali che si verificano a circa 44 e 60 anni di età cronologica”: è stato osservato che intorno ai 40 anni si modifica il metabolismo dei lipidi, dell’alcol e la sensibilità alle malattie cardiovascolari, mentre il raggiungimento dei 60 anni comporterebbe un cambiamento della regolazione immunitaria e del metabolismo dei carboidrati. Che gioia.



A prescindere dal fatto che l’invecchiamento sia un processo lineare o a scatti, il fatto che esistano esseri viventi che, come si diceva, riescono a vivere centinaia di anni stimola la riflessione su cosa significhi invecchiare. In fondo, la domanda che si pone la biologia è: dato che l’invecchiamento è associato alla perdita della salute, la selezione naturale dovrebbe promuovere quei geni che ne favoriscono il rallentamento. Perché ciò non accade?



Sulla pagina del Max Planck Institute for Biology of Ageing – cioè l’unità per lo studio dell’invecchiamento di uno degli istituti di ricerca più prestigiosi al mondo – è possibile leggere due delle teorie proposte dalla biologia per tentare di spiegare l’invecchiamento. La prima, nota come “teoria dell’accumulo delle mutazioni”, è stata avanzata da Peter Medawar, premio Nobel per la medicina nel 1960. Si consideri che l’accumulo lento e graduale di mutazioni sta alla base dell’evoluzione delle specie. Secondo Medawar riprodursi è l’obiettivo primario dei viventi, e proprio per questo la selezione naturale sarebbe molto efficace nell’eliminare le mutazioni dannose che si manifestano durante la prima parte della vita di un organismo, cioè prima che raggiunga l’età della riproduzione, o nel rendendogli difficile sopravvivere o impedendogli di riprodursi. La selezione naturale sarebbe però meno efficace nell’eliminare le mutazioni tardive, quelle cioè che si verificano nel periodo successivo alla riproduzione, proprio perché da queste non dipende più la possibilità dell’organismo di riprodursi o meno. In questo modo le mutazioni tardive sfuggirebbero alla pressione selettiva. Dunque, l’invecchiamento, stando alla teoria di Medawar, consisterebbe proprio nell’accumulo di queste mutazioni tardive. La seconda teoria è di poco successiva ed è stata proposta da George Williams, biologo evoluzionista che ha insegnato alla Stony Brook University of New York. La sua ipotesi prende il nome di “teoria della pleiotropia antagonista”. Niente paura, a volte sono solo i nomi ad essere complessi. In biologia la pleiotropia è la capacità di alcuni geni di influenzare contemporaneamente tratti distinti e non correlati tra loro, come il colore dei capelli e la quantità di un ormone specifico. Ad esempio, il 40 per cento dei gatti con il manto bianco e gli occhi azzurri sono sordi, questo perché esiste un gene che influenza sia la pigmentazione che la capacità di udire, un gene pleiotropico, appunto. Dunque, la teoria della pleiotropia antagonista sostiene che “la selezione naturale possa favorire varianti geniche con effetti benefici all’inizio della vita, anche se le stesse varianti hanno effetti deleteri in seguito”. Ciò significa che, per esempio, il gene (o i geni) che influenza la quantità di testosterone – che determina la quantità di massa muscolare e i livelli di aggressività – può facilitare la ricerca di una partner e l’accoppiamento, venendo quindi trasmesso, però può anche aumentare la suscettibilità a patologie durante la vecchiaia. In sostanza, geni utili da giovani ma sfavorevoli da anziani che, nonostante ciò, vengono tramandati. Ecco l’invecchiamento spiegato da questa prospettiva.

La longevità dello squalo della Groenlandia sembra legata a una grande capacità di riparazione del dna e all’alterazione della proteina p53



Sugli animali ultracentenari, da qualche mese è possibile leggere uno studio che ha analizzato il dna dello squalo della Groenlandia, l’unico vertebrato che può arrivare a vivere più di 400 anni. Lo studio non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria – cioè non è ancora stato letto e valutato criticamente da professionisti con competenze simili a quelle degli autori – ma a giudicare dal numero e dalla rilevanza scientifica degli istituti coinvolti si può stare tranquilli. Il lavoro ci spiega che “la durata della vita mostra una robusta covariazione con le dimensioni adulte, il metabolismo e l’età alla maturità sessuale […]”. Ciò significa che questi fattori sono fortemente legati tra loro. Ad esempio, un topolino è molto piccolo, ha un metabolismo piuttosto veloce, raggiunge la maturità sessuale in poco tempo e, perciò, vive molto poco. Per gli animali che hanno una vita incredibilmente lunga “è stato proposto che un principio fondamentale nell’evoluzione della longevità eccezionale sia l’occupazione di habitat che non sono facilmente accessibili”, come caverne o abissi marini. Molto affascinante. Infatti, è proprio lì che vive la sua lunga esistenza lo squalo della Groenlandia. Luoghi nei quali non c’è molto da fare. Infatti, “la longevità in questa specie è associata a un tasso di crescita estremamente lento, inferiore a un centimetro all’anno, e a un comportamento letargico con una velocità di crociera inferiore a un metro al secondo”. Inoltre, “le sue (grandi) dimensioni e la temperatura estremamente bassa dell’ambiente in cui vive determinano un tasso metabolico […] molto basso”. Ma più precisamente, ciò che emerge da questo lavoro è che la longevità dello squalo della Groenlandia sembra strettamente legata a una grande capacità di riparazione del dna e all’alterazione di una proteina (p53), che rende il sistema di controllo del danno cellulare più efficiente.

Una nuova idea di invecchiamento, basata sulla salute e sul coinvolgimento di tutte le persone anziane (non solo dei cosiddetti “giovani anziani”)



Se ci spostiamo da una prospettiva biologica a una sociologica, non si può non menzionare l’active ageing (invecchiamento attivo). Per capire di cosa si tratta è bene rifarsi alla spiegazione di Alan Walker, professore di politiche sociali all’Università di Sheffield, in un articolo intitolato A strategy for active ageing (“Una strategia per l’invecchiamento attivo”). Il concetto è nato negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta ed era inizialmente indicato con l’espressione “invecchiamento di successo”: un traguardo che doveva essere raggiunto “negando l’inizio della vecchiaia e sostituendo le relazioni, le attività e i ruoli della mezza età, con altri nuovi per mantenere le attività e la soddisfazione della vita”. Venti anni dopo, sempre in America, arriva una prima riformulazione teorica dell’invecchiamento di successo, in quegli anni trasformato in “produttivo”. Non è difficile intuire che “la maggior parte delle varianti dell’invecchiamento produttivo si concentrano strettamente sulla produzione di beni e servizi e, pertanto, tendono a essere strumentali ed economiciste”. Per l’affermazione della nozione di “invecchiamento attivo” vero e proprio bisogna aspettare gli anni Novanta, e un luogo diverso dagli Stati Uniti. E’ in Europa, infatti, che sotto l’influenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si sviluppa questa nuova idea di invecchiamento, che si basa sulla promozione della salute mentale, fisica e sul coinvolgimento sociale delle persone anziane (di tutte, non solo dei cosiddetti “giovani anziani”). Si tratta di un processo da favorire attraverso “la partecipazione e l’inclusione delle persone anziane come cittadini a pieno titolo”, dunque, a prescindere dall’aspetto meramente produttivo. Seguendo il motto “gli anni sono stati aggiunti alla vita; ora dobbiamo aggiungere vita agli anni”.



Al di là delle frasi a effetto e, come si diceva inizialmente, data l’importanza che diamo all’aspetto esteriore in questa fase storica, un consiglio che rimane sempre utile seguire per evitare la fioritura di rughe – massime rappresentanti dell’invecchiamento – è quello di evitare l’eccessiva esposizione al sole. Infatti, contrariamente alle parole di Dalla nella canzone “Siamo dei”, abbronzarsi tutto il giorno al mare non fa bene per niente. Soprattutto considerando che, dato che invecchiamo, non si direbbe affatto che lo siamo.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.