Quel che sta accadendo all’oro mentre imperversa il ciclone Trump dà torto a Keynes, che considerava il metallo prezioso un relitto. Le sue quotazioni aumentano, le banche centrali lo bramano e lo accumulano
Barbarico relitto? Non scherziamo, la sola “idea di quel metallo” aguzza le menti nelle ore più buie e dà fiducia quando si spegne anche la speranza. Quel che sta accadendo all’oro mentre imperversa il ciclone Trump dà torto a John Maynard Keynes, il sofisticato economista inglese che dopo essere stato il nume tutelare del liberal-socialismo oggi potrebbe essere un’icona del mondo woke. E dà ragione allo scettico e immaginifico Gioacchino Rossini il quale, per bocca di Figaro, si fida più degli zecchini che di qualsiasi padrone. Altro che bitcoin e diavolerie immateriali, altro che terre rare o strategiche, è il più pesante dei metalli preziosi a guidare le danze, lo dimostra il prezzo che come sempre è termometro non solo degli scambi mercantili, ma di grandi spostamenti sociali e politici, di veri rivolgimenti del potere. Se si guarda alle grandezze finanziarie che circolano nel mondo, i debiti sono di gran lunga in cima alla scala: ammontano a circa 323 mila miliardi di dollari americani; la moneta liquida è stimata in 106 mila miliardi, il bitcoin supera di poco i duemila, l’oro più di dieci volte tanto. Un tempo era l’ancora dell’intero sistema valutario, poi è stato considerato un bene rifugio il cui valore sale a mano a mano che scende la sicurezza in un paese o nel mondo intero, adesso vive un’altra vita.
La nuova corsa, secondo alcuni analisti, va spiegata anche come reazione a una realtà sempre più irreale, a un’economia che prima era diventata di carta poi si è resa impalpabile grazie alle tecnologie informatiche fino a trasformarsi in una funzione matematica, emanazione di menti superiori, uomini che vogliono superare la dimensione umana, come racconta la storia di copertina dell’Economist. Di fronte a tutto questo, l’oro riconduce alla materia e fa scendere a terra il carro di Fetonte. Siamo arrivati a sfiorare i tremila dollari l’oncia, che equivale a 31,1035 grammi. Le ultime quotazioni s’aggirano sui 2.800 dollari (quasi 90 euro al grammo sul mercato europeo), ma secondo la Bank of America entro l’anno salirà ancora trascinando con sé le materie prime a cominciare dall’uranio. Fa eccezione il petrolio un po’ perché l’economia mondiale rallenta e cala la domanda, un po’ per le manovre dell’Arabia Saudita che ha aumentato la produzione per far scendere il prezzo e ingraziarsi Trump (non i petrolieri texani che si aspettano più degli attuali 70 dollari al barile).
Per quanto riguarda l’accumulo di riserve, sono in prima fila anche le banche centrali dell’est europeo. Persino Georgia e Kirghizistan
Protagonisti del mercato aureo sono stati per anni i paesi in via di sviluppo. Gli equilibri sono cambiati molto rapidamente e adesso sono in prima fila le banche centrali, soprattutto quelle dell’est europeo a cominciare dalla Polonia, che nel 2024, con un incremento di 90 tonnellate, ha surclassato persino il dragone cinese che si è “accontentato” di 44 tonnellate. E’ la guerra, è la minaccia alla sicurezza che prevale rispetto a considerazioni puramente economiche o valutarie. La domanda complessiva ha superato le mille tonnellate per il terzo anno consecutivo. Repubblica Ceca e Ungheria guidano questo trend con acquisti rispettivamente di 20 e 16 tonnellate, seguite dalla Serbia con 8 tonnellate. Persino le ex repubbliche sovietiche si sono unite alla festa: Georgia e Kirghizistan hanno accumulato rispettivamente 7,1 e 6 tonnellate di lingotti. La Banca popolare cinese sta aumentando le sue riserve auree da almeno un anno e mezzo; l’India non solo ha mantenuto un ritmo costante di acquisti (73 tonnellate nel 2024), ma ha anche iniziato a rimpatriare le proprie riserve custodite all’estero. Un chiaro segnale che la fiducia nel sistema finanziario internazionale non è esattamente ai massimi storici. La Russia tradizionalmente era stata grande compratrice di metallo giallo, adesso sembra più concentrata a difendere il rublo, ma negli ultimi dieci anni aveva già raddoppiato le proprie riserve arrivando a 2.336 tonnellate. Sono entrati in scena nel frattempo i russi ricchi, i quali l’anno scorso hanno acquistato quasi 76 tonnellate con un aumento del 60 per cento rispetto a prima della invasione dell’Ucraina. Ancor più interessante quel che succede negli Stati Uniti, dove una catena di ipermercati all’ingrosso, la Costco, ha messo in vendita lingotti al prezzo di duemila dollari. L’oro sugli scaffali non si era mai visto se non in senso figurato. Non c’è miglior segno dell’incertezza, anzi della paura.
La Banca popolare cinese aumenta le sue riserve auree da un anno e mezzo; l’India ha mantenuto un ritmo costante di acquisti (73 tonnellate nel 2024)
La bonanza aurea è figlia anche dell’instabile comportamento mostrato dal nuovo comandante in capo delle più potenti armate al mondo. Le tariffe nelle parole di Trump sono “bellissime” e serviranno a compensare le minori imposte. Le une sono il bastone, le altre la carota. Allo stato attuale molte bastonate sono state già minacciate, alcune cadono sulla testa del Messico e del Canada, altre sulla Cina e sull’Unione europea associate, come nemiche da Vance, mentre la Russia viene colmata di promesse: la fine dell’embargo, affari a gogo, persino il ritorno nel G7. Ma per chi ha da gestire tanta ricchezza finanziaria privata o pubblica, cioè banche, fondi, governi, l’incognita maggiore viene dal dollaro. Anche in questo caso non si capisce che cosa intenda fare Trump. Un giorno vuole che la moneta venga svalutata per rendere più competitive le esportazioni di merci americane che rappresentano però appena l’11 per cento del prodotto lordo; così, ordina alla banca centrale (anche se la Federal Reserve è indipendente) di ridurre i tassi d’interesse. Con una moneta debole, però, le merci acquistate all’estero diventano più costose, se poi si aggiungono i dazi scaricati sui consumatori finali, l’inflazione è destinata a rimbalzare di nuovo. Il giorno dopo, The Donald, che forse ha incontrato a cena qualcuno che la pensa in modo diverso, dice che il dollaro deve restare forte abbastanza da scongiurare ogni pericolo di essere scalzato dall’euro e dalla valuta cinese, anche a costo di mantenere più alti del necessario i tassi di riferimento della Fed. Chi maneggia la moneta come una merce sta perdendo la testa. Il rischio di un qualche sorpasso del dollaro è ancora lontano, ma meno di un tempo. Molte grandi banche d’affari internazionali, anche americane, stanno riducendo la loro esposizione, comprando titoli in altre valute. Secondo la Bank of America è avvenuto già lo spostamento più significativo a favore dell’Europa dal 1999 a questa parte. Del resto le borse europee ormai da molti mesi stanno andando meglio di Wall Street.
Tutt’oro che luccica. Gli Stati Uniti ne posseggono 8.133 tonnellate, segue la Germania con 3.359. L’Italia è al terzo posto con 2.452 tonnellate
Tutt’oro che luccica, se mi passate la facile battuta. Il confuso balletto attorno al biglietto verde va a favore del metallo giallo. Gli Stati Uniti ne posseggono 8.133 tonnellate, al secondo posto viene la Germania con 3.359 tonnellate (e ne ha ritirate in gran parte da Fort Knox), poi arriva l’Italia con 2.452 tonnellate, seguita a ruota dalla Francia (2.436 tonnellate), poi Russia (2.298), Cina (1948) e Svizzera con poco più di mille tonnellate. Anche se Londra è il più grande mercato, il Regno Unito mantiene il segreto sull’ammontare delle proprie riserve, ma il World gold council stima che siano circa 310 tonnellate. C’è stato un tempo in cui la Fed aveva oro di proprietà, ma non è più così. Una legge approvata nel 1934 ha trasferito tutto al Tesoro, che rilascia dei certificati per dimostrare la proprietà. Va ricordato che la stessa banca centrale è una struttura privata con finalità pubbliche. Il Federal Reserve System è costituito dal Board of Governors con sede a Washington, composto da sette governatori nominati dal Presidente degli Stati Uniti e da dodici Federal Reserve Bank regionali. Una quota dell’oro americano e di gran parte dei paesi ricchi è a Fort Knox nel Kentucky, il resto alla Fed di New York in un magazzino costruito nel 1920, che ha subito miglioramenti sostanziali nel tempo e oggi è considerato uno dei depositi più impenetrabili del mondo. I lingotti sono proprietà di un certo numero di titolari di conti, con la Fed come custode. Questi clienti includono il governo di Washington, ma anche molti governi stranieri e gli investitori privati.
L’oro della Banca d’Italia è per 4,1 tonnellate sotto forma di moneta (si tratta di 871.713 pezzi), il resto in lingotti. Al 31 dicembre 2018 valeva 88 miliardi di euro, oggi, al prezzo attuale, arriva a 220 miliardi. E’ dislocato per 1.100 tonnellate nei sotterranei di palazzo Koch, in via Nazionale 91, per altre 1.061 tonnellate negli Stati Uniti, il resto diviso tra Svizzera e Regno Unito. Alla Banca centrale europea sono state conferite 141 tonnellate nel 1999 come garanzia quando la lira ha lasciato il posto all’euro. L’Italia dunque è una grande potenza aurea. A più riprese e da più parti (Lega e M5S ad esempio) è stato proposto di usare l’oro per ridurre il debito pubblico e coprire le spese. Da un lato non sarebbe sufficiente (il debito tocca ormai i tremila miliardi di euro), dall’altro entrerebbe in conflitto con la moneta unica.
La storia è lì a ricordare gli appetiti che hanno consumato “l’oro della patria”. Nel 1933 la riserva aurea della Banca d’Italia superava le 561 tonnellate, ma all’ingresso in guerra, dopo consistenti cessioni, il quantitativo complessivo era sceso a 106 tonnellate. Con l’armistizio del 1943 le riserve vennero per lo più espropriate dai tedeschi e trasferite per 92 tonnellate in Alto Adige, a Fortezza. Nel 1945 gli alleati le riportarono a Roma. Con il miracolo economico l’Italia è diventata un grande paese esportatore di merci e parte delle valute estere sono servite per comprare oro: dal 1951 al 1960 le riserve sono salite fino a duemila tonnellate. Guido Carli ha raccontato in dettaglio come e perché lui e Paolo Baffi puntarono sull’oro fino ad accumulare nel 1973, alla vigilia della grande crisi petrolifera, 2.565 tonnellate. Poi la lira cominciò a tremare e a crollare, nel 1976 il governo Andreotti chiese aiuto alla Germania e la Bundesbank, in garanzia del prestito, volle 543 tonnellate che furono portate a Francoforte con treni blindati. Rientrate negli anni successivi, su molti lingotti resta ancora stampigliata la Bundesadler, l’aquila della Repubblica federale tedesca. La drammatica crisi di quegli anni è stata ricordata da Carli nelle sue memorie.
Il giorno di ferragosto 1971 Richard Nixon decide d’imperio, senza consultare nessun paese, né il Fmi, la fine della convertibilità del dollaro in oro al prezzo fisso stabilito nel 1944 a Bretton Woods. Il governatore è al mare, fa la guardia Baffi, il suo vice. Una tempesta si scatena nel sistema finanziario internazionale e sui mercati delle materie prime. Il dollaro si svaluta, il petrolio (quotato in dollari) segue a ruota. Poi nell’ottobre del 1973 arriva la guerra dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), Egitto e Siria attaccano Israele e i paesi arabi produttori rincarano il greggio, in breve tempo il prezzo del petrolio viene moltiplicato per quattro. Comincia la stagflazione (bassa crescita e prezzi alti) una crisi che finirà solo dieci anni dopo. Lo sconquasso scuote anche gli Stati Uniti che avevano acceso la miccia. Per finanziare da un lato la guerra in Vietnam e dall’altro la Great Society con l’introduzione del welfare state (per esempio l’assistenza sanitaria con il Medicare e il Medicaid), una enorme quantità di dollari circolava negli Usa e nel mondo intero, monete sempre più svalutate, anche perché non c’era oro a sufficienza per garantire il cambio a 35 dollari l’oncia. La svolta era nell’aria, ma la decisione improvvisa e unilaterale di Nixon coglie tutti alla sprovvista.
Nelle considerazioni finali all’assemblea della Banca in quel fatidico 1973, prima ancora che scoppiasse la guerra in Israele, il governatore Carli spiega che “nessuno dei paesi produttori deposita dollari negli Stati Uniti e tutti hanno effettuato la conversione in altre valute. Altri paesi conducono una politica diretta a sollecitare l’impiego di quote delle riserve eccedentarie in acquisti di materie prime, e così contribuiscono a spingere verso l’alto i prezzi. L’ampliarsi della divergenza tra il prezzo ufficiale dell’oro e i corsi di mercato ha indotto gli stati detentori del metallo a considerarlo come una componente congelata delle loro riserve… Si conclude così la lunga marcia verso la riforma del sistema monetario internazionale, con l’obiettivo di escludere gradualmente l’oro per rimpiazzarlo con una moneta immaginaria, creata da uomini saggi riuniti in consessi internazionali. I più non hanno creduto alla saggezza degli uomini, hanno preferito affidarsi al metallo, nel quale i predecessori avevano riposto la fiducia nel corso dei secoli.
Allora, la moneta immaginaria erano i diritti speciali di prelievo del Fmi, basati su un paniere di valute, pallida imitazione del Bancor ideato da John Maynard Keynes, scartato a favore del dollaro vincitore, sottoposto anch’esso, però, alla scarsa saggezza degli uomini o a scelte arbitrarie. In questi anni è stata introdotta una moneta ancor più immaginaria, basata su transazioni regolate da algoritmi e da intenti puramente speculativi, stimolati persino dal custode del dollaro, il presidente americano che mette i guadagni nel proprio conto in banca.
Alan Greenspan, l’economista americano presidente della Fed dal 1987 al 2006, diceva che nessuna valuta, nemmeno il dollaro, può competere con l’oro, che ha molta più storia di qualsiasi altra moneta. Il guaio è che, per quanto se ne possa estrarre, la sua quantità è comunque finita, mentre la moneta fiduciaria in teoria può non avere limiti (se si è in grado di gestirne le conseguenze). Nonostante quel che ritengono i suoi sostenitori, l’oro non può garantire l’immensa liquidità che circola nel mondo contemporaneo, ancor più nel mondo formato e trasformato dal trentennio della grande globalizzazione. Tuttavia, la tempesta finanziaria del 2008 ha dimostrato che per non venire travolti servono una bussola e un approdo. Se è così, il “barbarico relitto” appare meno barbarico e meno relitto di quanto aveva immaginato Keynes. Non può diventare l’unico ormeggio, ma è pur sempre più saldo di qualsiasi altro finora conosciuto, checché ne pensino Elon Musk e Donald Trump. L’idea di quel metallo che trasforma in un vulcano la mente di Figaro, oggi potrebbe essere utile per recuperare il senno perduto.