L’allenatore sta salvando la squadra sarda, missione non facile quando si è seduto in panchina a stagione in corsa. Il suo discorso dopo la vittoria contro Trapani
In un momento in cui il basket italiano avrebbe un bisogno disperato di ritrovare valori antichi da abbinare a eroi moderni, ben venga la faccia sorridente e stravolta di Massimo Bulleri che passeggia da una parte all’altra dello spogliatoio della sua Dinamo Sassari per celebrare una vittoria pesantissima, contro la capolista Trapani. Terzo successo di fila e Banco di Sardegna ormai sostanzialmente al riparo dal rischio retrocessione, spettro che era apparso all’orizzonte della stagione dei sardi con un pizzico di sorpresa per chi a inizio anno si diverte a fare le griglie di partenza. Un acuto provvidenziale che si abbina a quello di qualche settimana fa contro la Virtus Bologna, perché i punti necessari per salvarsi sono ovunque e spesso le tabelle si rivelano carta straccia. Sassari se l’è giocata sul piano dell’aggressività contro una delle formazioni che ne fa un punto di forza e ne è uscita con la vittoria in mano, sporcando le percentuali degli avversari ed esaltando le proprie, con un Brian Fobbs praticamente immacolato al tiro e un Bendzius che si è acceso quando il gioco si è fatto duro. E l’ha vinta anche con un paio di stratagemmi estremamente moderni pur avendo radici datate: il doppio playmaker, proprio lui che ai tempi della Benetton Treviso spesso e volentieri si trovava a condividere il parquet con uno dei play americani più imprendibili degli anni d’oro del basket italiano, Tyus Edney, e il sempre prezioso utilizzo della difesa a zona per cambiare le carte in tavola contro un avversario che fino a questo momento ha stupito tutti grazie al lavoro della società di Trapani e di un coach navigato come Jasmin Repesa.
Nell’era dei social ormai basta poco per immortalare anche dei momenti sacri e lo staff della Dinamo, nelle due occasioni di grido, ha deciso di mostrare al pubblico cosa prova un allenatore dopo una vittoria pesante. Le cose che ritiene opportuno dire, i punti sui quali porre l’indice, andando per una volta oltre quelle che sono le interviste di rito a fine partita, spesso banali fino alla noia.
“Posso disegnare tutti gli schemi, gli esercizi, ma tutto quello che succede in campo arriva da voi”, dice a un certo punto Bulleri, che da capo-allenatore aveva fatto fatica all’inizio della sua avventura salvo poi avere l’umiltà, qualità che non deve essere sottovalutata, di ripartire facendo un passo indietro e accettando l’incarico di assistente prima a Limoges, quindi a Sassari.
Alla Dinamo lo aveva portato Piero Bucchi e lì era rimasto anche agli ordini di Nenad Markovic. Quest’anno, quando tutto sembrava andare a rotoli, la società ha scelto di puntare su di lui, affidandogli una nave che stava imbarcando fin troppa acqua. Non era facile, eppure Bulleri, che negli occhi e nei cuori degli appassionati rimane uno dei volti simbolo della Nazionale capace di vincere il bronzo europeo in Svezia nel 2003 e l’argento olimpico ad Atene nel 2004, ha condotto i suoi ragazzi fuori dal burrone in cui stavano scivolando.
Adesso vola basso, non vuole sentire parlare di futuro e di rinnovo, pensa alle sei partite che rimangono e che dovranno dare la certificazione del lavoro fatto, come se la salvezza ormai dietro l’angolo non bastasse: conta sempre e solo il campo, lo sforzo compiuto nel corso della settimana, l’agonismo che si accende nei momenti che conta. Era così da giocatore e non sembra cambiato da allenatore. E profili come quello di Massimo Bulleri sono quelli che servono per riportare il basket nel cuore degli italiani.