L’università sotto esame

A che cosa (e a chi) serve. Che cosa non funziona. Come si può riformare. Dall’autonomia mal interpretata al ruolo dei rettori, dal localismo al reclutamento e al mutato profilo dei docenti: idee e prospettive. Un intervento al Senato

Publichiamo il discorso di Ernesto Galli della Loggia pronunciato in un’aula del Senato nel corso di un incontro promosso dal ministro Anna Maria Bernini, dedicato alla revisione delle norme che regolano l’attuale funzionamento dell’Università.


Una riflessione sulle norme che regolano la vita dell’Università, a cui questo incontro è dedicato, richiede che prima si risponda a una domanda: qual è l’idea di Università che vogliamo realizzare? E a che cosa vogliamo che essa serva? Allora dirò subito l’idea di Università che è la mia, e che costituirà la falsariga di tutto quanto sto per dire. E’ l’idea dell’Università come un’istituzione inseparabile dall’interesse pubblico e che dunque guarda con sospetto all’ingresso nel suo recinto di un interesse diverso, come ad esempio quello del profitto. Un interesse pubblico che non può che avere come propri punti di riferimento la Repubblica e la sua Costituzione, vale a dire, se non vogliamo avere paura delle parole, la politica. Del resto in questa parte d’Europa di cui l’Italia fa parte – così differente dal mondo anglo-sassone – dopo la fine dell’ancien régime è per l’appunto il moderno Stato politico, liberale prima e democratico poi, è questo Stato che storicamente ha tenuto a battesimo l’istruzione pubblica e in vari modi ha posto sotto la propria egida le antiche università. Rivendicandone la guida, favorendone la crescita e – particolare non proprio irrilevante – accollandosene il costo. Il valore legale del titolo di studio, a cominciare dalla laurea universitaria, è per l’appunto la testimonianza nel nostro ordinamento di questo nesso costitutivo tra statualità da un lato e istruzione dall’altro.

Per l’appunto l’impianto pubblico-statale ha consentito che la moderna Università di tipo europeo continentale conseguisse negli ultimi due secoli e pur tra alterne vicende due importantissimi risultati storici. Da un lato di consentire in complesso alla ricerca e all’insegnamento un altissimo grado di libertà, dall’altro di svolgere un ruolo decisivo ai fini dell’unità del paese. Infatti, almeno fino a tempi recenti, l’Università ha rappresentato un collante importantissimo per ciò che riguarda la formazione delle élite e della classe dirigente delle nazioni europee. Un fattore decisivo di coesione culturale e quindi di unità sociale e politica. Specialmente per l’Italia si è trattato di un fattore di grande rilievo.

Questa funzione si è tutt’altro che esaurita. Sta oggi sorgendo intorno a noi un mondo nuovo, irto di pericoli, destinato a mettere in crisi molte passate certezze. Proprio questo mondo nuovo sembra annunciare, ad esempio, un ritorno sulla scena dello Stato nazionale con la dimensione sua propria della sovranità: se domani ci sarà un’Europa unita in grado di difendersi essa molto verosimilmente sarà un’Europa fondata sull’unione dei suoi Stati nazionali. Ma per affrontare questo scenario inedito serve un paese con una classe dirigente consapevole, avvertita politicamente e adeguata culturalmente che solo l’Università può aiutare a formare.


L’impianto pubblico-statale ha consentito che la moderna Università conseguisse negli ultimi due secoli due importantissimi risultati storici: da un lato di consentire in complesso alla ricerca e all’insegnamento un altissimo grado di libertà, dall’altro di svolgere un ruolo decisivo ai fini dell’unità del paese


Ma essa ne è ancora capace? Dobbiamo o chiedercelo in particolare riguardo agli effetti che ha avuto l’autonomia, forse la maggiore novità introdotta in questo secolo nell’ordinamento universitario.

Il nostro ordinamento democratico ha attribuito alle università “il diritto di darsi ordinamenti autonomi”; ma nella Costituzione, come è noto, si precisa subito dopo: “nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Riconoscendo per l’appunto al legislatore e quindi alla politica, indirettamente all’autorità di governo, il diritto di stabilire l’indirizzo generale e le regole conseguenti da dare all’istruzione superiore.

Con il tempo, tuttavia, questo modello ideale è andato tramutandosi in qualcosa di diverso. Con il tempo, infatti – anche per colpa della genericità o degli errori e dei vuoti delle disposizioni di legge – l’autonomia ha smesso di significare autonomia del sistema per significare una sempre crescente autonomia delle sue parti, di ogni singolo ateneo. Mentre contemporaneamente al ministero quale organo di controllo e di direzione del sistema, ma comunque politicamente responsabile, sempre più è andato sostituendosi per mille aspetti un organo assolutamente indipendente dietro la sua presunta natura tecnica, l’Anvur, politicamente irresponsabile e tuttavia, come sappiamo, in grado d’imporre regole di ogni tipo quanto mai costrittive e vincolanti.

In questo regime gli atenei si sono via via costruiti spazi propri di autodecisione e di autodeterminazione sempre maggiori: e sempre o quasi a vantaggio dei poteri della governance, del loro accrescimento. Un processo che era iniziato già da tempo ma al quale una certa interpretazione della nuova legge sull’autonomia ha dato una spinta decisiva. Sempre più i poteri si sono accentrati nella figura del Rettore, troppo spesso facitore e rifacitore dello statuto dell’ateneo a uso e consumo per l’appunto della centralità del proprio ruolo.

In tal modo è svanita, però, la ragione prima che giustificava l’autonomia universitaria. L’autonomia universitaria, infatti, non è la premessa per l’esistenza di tante repubblichette accademiche. E un’autonomia esclusivamente funzionale, la cui ampiezza lo Stato può decidere sulla base di un suo apprezzamento discrezionale. E a che cosa l’autonomia sia funzionale lo dice al primo capoverso l’art. 34 della Costituzione, in coda al quale, non a caso, tale autonomia è prevista: l’autonomia è in funzione della libertà della ricerca e dell’insegnamento. Di null’altro.

Viceversa l’autonomia è servita soprattutto, di fatto, al progressivo disancoramento del sistema universitario dal suo nesso storico con lo Stato nazionale. L’Università ha smesso di pensarsi come un sistema al servizio della complessiva crescita culturale del paese per pensarsi come un insieme di singoli atenei impegnati soprattutto nella competizione per assicurarsi ognuno un sempre maggior spazio.

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L’obiezione che si fa a chi solleva il problema dell’attuale eccessivo potere della figura del Rettore è che tale potere trova comunque un limite decisivo nel non rinnovabilità del mandato, che come è noto è fissato dalla legge in sei anni. Questa clausola di garanzia si è rivelata, però, un caso tipico di eterogenesi dei fini. Infatti, è proprio la non rinnovabilità del mandato che ha finito per accelerare il mutamento del ruolo e della figura del Rettore in una direzione che a me pare negativa.


Lentamente spossessati delle loro prerogative, angariati da controlli demenziali sulla loro produttività, asfissiati sotto una valanga di moduli e riunioni, un gran numero di docenti sempre di più percepiscono sé stessi come semplici addetti alla somministrazione di lezioni ripetitive, come addetti alla catena di montaggio degli esami



Guardiamo alla realtà: oggi a ben pochi Rettori sembra naturale, finito il proprio mandato, di tornare nei ranghi del corpo docente e riprendere la propria vita precedente. E così al Rettore “primus inter pares” di un tempo, il quale decideva di interrompere la propria attività di docente e di studioso dedicando alcuni anni al servizio della comunità accademica – magari anche per più di un mandato, e naturalmente in cambio del prestigio che ne discendeva – a questo tipo di Rettore, dicevo, è subentrato una figura ben diversa. Quasi tutti i Rettori, ormai, sono soliti vivere la propria carica come la tappa iniziale di un percorso di ben maggiore rilevanza sociale: naturalmente fuori dall’Università. E’ divenuta pressoché generale l’aspirazione a ricoprire dopo il rettorato qualche incarico importante nei vari organismi in cui si articola il potere specie locale, a svolgere qualche ruolo di tipo pubblico e magari politico a livello nazionale o no.

Accade quindi sempre più spesso, beninteso sempre restando nei confini della legge, che la carica di Rettore sia utilizzata anche tenendo conto di questa prospettiva avvenire. L’esperienza ci dice che il luogo ove tale prospettiva ha più agio di costruire le proprie premesse e comincia a prendere forma è il Consiglio d’amministrazione dell’ateneo. Per due ragioni: perché è l’organo che a causa della sua composizione, oggi decisa in buona parte dal Rettore stesso, questi ha più facilità di orientare, e perché il Consiglio d’Amministrazione è divenuto l’organo dove si prendono quasi tutte le decisioni realmente strategiche. In modo particolare le decisioni che hanno più nessi con la sfera d’interessi esterni alle questioni universitarie propriamente dette: in primis le decisioni riguardanti le questioni urbanistiche ed edilizie, dal momento che molti atenei sono proprietari di aree edificabili più o meno vaste, ovvero di immobili importanti, ovvero sono impegnati in programmi di espansione, di ridisegno o di riqualificazioni delle proprie sedi. Decisioni, come è facile capire, spesso rilevanti per la vita e gli interessi delle comunità locali.

Ma non solo: sempre attraverso il Consiglio d’Amministrazione passa anche un altro tipo di decisione – ad esempio quella circa il numero di studenti cui riconoscere l’esenzione dal pagamento delle tasse d’iscrizione, il che può essere importante per costruire un certo tipo d’immagine pubblica del Rettore, del suo gradimento, da spendere poi in vista della sua, diciamo così, proiezione extrauniversitaria al termine del mandato. E forse è anche così che si spiega il fatto che in Italia ben il 40 per cento degli iscritti è attualmente esentato dal pagamento delle tasse universitarie: una percentuale cresciuta di tre volte nel giro di soli dieci anni.

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A causa soprattutto della crescita del potere rettorale e a dispetto paradossalmente dell’autonomia di cui gode, l’Università italiana è divenuta sempre meno l’Università dei professori. Sempre più essa è un’altra cosa. Anche nell’ immagine pubblica ogni ateneo appare sempre meno come un “corpo” e sempre più, invece, come un organismo raccolto intorno al capo dell’ateneo: una sorta di “premierato” accademico, se così posso dire.

Specialmente nelle sedi universitarie più grandi il nuovo ordinamento ha consentito che in luogo delle antiche, granitiche, facoltà subentrasse la moltiplicazione dei dipartimenti frutto frequente della convergenza di accorte strategie di potere accademico provenienti dall’alto e dal basso. Non si è trattato solo di una trasformazione organizzativa. Anche in questo modo, infatti, sono andati distrutti l’antica compattezza e il profilo storico del corpo accademico che aveva la sua roccaforte nel Senato accademico, non a caso oggi ridotto al fantasma di se stesso. Anche in questo modo è venuta attuandosi quella profonda trasformazione che ha colpito la figura del professore universitario e sta stravolgendone il profilo. Una trasformazione che si concretizza nella perdita della dimensione intellettuale e insieme sociale un tempo propria di questa figura, e che cancella la sua capacità di custodire un’identità e uno spirito propri. Voglio usare termini non a caso desueti: la capacità di conservare un ethos e una tradizione fondati su un’orgogliosa consapevolezza della propria libertà.

Non si tratta di versare qualche lacrimuccia nostalgica sulla fine di una antica corporazione. Si tratta di rendersi conto che la fine di quella figura di docente segnala in realtà la crisi dei processi di formazione di qualcosa di assai più importante: della crisi che ha colpito la formazione dell’intera classe dirigente del paese: la quale – in Italia come altrove in Europa – ha da sempre avuto nell’Università un suo decisivo punto di forza.

E’ facile consolarsi invocando mille giustificazioni: che ciò accade non solo da noi, che si tratta di un frutto inevitabile dei tempi, che comunque il passato non torna. Ma si consenta a chi con il passato ha qualche dimestichezza professionale come chi vi parla, di pensare che comunque il passato costituisce ancora il miglior metro per capire il presente poiché il confronto con ieri fa capire fino in fondo la reale portata di quanto sta accadendo oggi.

E quanto sta accadendo oggi è che, lentamente spossessati delle loro prerogative, angariati da controlli demenziali sulla loro produttività, asfissiati sotto una valanga di moduli, di questionari, riunioni, commissioni, di calcoli di crediti e di requisiti minimi, un gran numero di docenti universitari – spesso i migliori o quelli che non hanno perduto il ricordo del mondo di ieri – sempre di più percepiscono sé stessi come semplici addetti alla somministrazione di lezioni meccanicamente ripetitive, come addetti alla catena di montaggio di esami che di esami veri hanno perlopiù solo il nome.

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Ripensare il sistema universitario significa dunque anche non chiudere gli occhi di fronte all’oggettivo processo di decadimento qualitativo che ha colpito la docenza. Non mi azzardo a parlare di ciò che non conosco, ma per il settore delle discipline umanistiche sono assolutamente certo di quello che dico. Quel che è certo è che a proposito di un tale decadimento è impossibile non pensare alle responsabilità dell’attuale sistema di reclutamento. Sia per la prima che per la seconda fascia l’“abilitazione scientifica nazionale” si è rivelata né adeguatamente scientifica né sufficientemente nazionale.

La responsabilità è naturalmente di chi ha dettato le regole ma forse maggiore è la responsabilità di chi, applicando quelle regole, non ha avvertito immediatamente i risultati perversi che esse stavano producendo ma anzi ha perseverato sulla strada imboccata. Le norme stabilite dall’Anvur per l’accesso dei candidati alla prova, così come quelle per la selezione dei commissari, si sono rivelate una frustrante, burocratica, gabbia di acciaio a base di criteri sostanzialmente formali e quantitativi, incapaci pertanto di misurare l’effettiva qualità della ricerca: e cioè l’originalità e dunque l’effettiva l’incidenza sugli studi dei suoi risultati. Nei fatti l’abilitazione – anche a causa del numero aperto dei promuovibili – ha significato il passaggio di un gran numero di candidati troppo spesso immeritevoli. I quali però, forti dell’ottenuta abilitazione, premono sulle strutture universitarie, convinti che l’abilitazione debba significare l’effettivo ingresso in ruolo. Convinzione che peraltro spesso ha successo: non già però in riconoscimento del merito, bensì quasi sempre come premio per coloro che sono in grado di far valere un rapporto precedente con questa o quel dipartimento: riducendosi dunque il meccanismo della chiamata, come sappiamo tutti, perlopiù a una mera formalità.


Siamo sicuri che il perimetro disciplinare del sistema universitario ereditato dal passato sia ancora oggi accettabile? Medicina e Ingegneria in pratica detengono la “golden share” per l’elezione di qualunque Rettore



E’ in tal modo, tra l’altro, che è andato sempre più aggravandosi un fenomeno che caratterizza molti atenei italiani, specialmente quelli medio-piccoli: il localismo. Il candidato proveniente da un dipartimento dell’ateneo X – dove il più delle volte capita che egli abbia studiato, si sia laureato, si sia addottorato e abbia anche avuto un posto di ricercatore – una volta ottenuta l’abilitazione ha la quasi certezza di essere chiamato in un più o meno breve giro di tempo da quel medesimo dipartimento. Non da ultimo grazie anche al perverso meccanismo dei punti organico che, se egli era già nei ruoli dell’ateneo, rende economicamente assai più conveniente la sua chiamata piuttosto che quella di chiunque altro.

La conseguenza è che oggi in non poche sedi universitarie specie nel centro-sud pressoché l’intero corpo docente si è laureato in quell’ateneo e vi ha svolto l’intera carriera. Viene così meno la possibilità – che invece fino al secolo scorso fu la regola – che per almeno un triennio anche le più periferiche sedi universitarie della Penisola vedessero insegnare nelle proprie aule i massimi esponenti degli studi. Con quale beneficio per la circolazione delle idee, quindi per il progresso culturale dell’intero paese è inutile sottolineare.

E’ il momento di riassumere. Dunque: garantire la centralità dell’intero corpo docente nella gestione degli atenei; assicurare la sua qualità mediante procedure nuove di accesso alla carriera; infine, limitare le attività dell’Anvur esclusivamente al controllo della qualità della ricerca dei singoli docenti e dei dipartimenti ma dopo avergli tolto la possibilità di stabilire esso da solo le regole e le procedure del controllo suddetto. Questi sono a mio giudizio i criteri direttivi a cui non dovrebbe temere di ispirarsi chi oggi intendesse realmente rinnovare l’Università italiana.

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So bene quanto sarebbero impegnative e difficili le giornate di chi avesse l’audacia provarci. Figuriamoci poi se in aggiunta a tutte le questioni fin qui illustrate egli – o dovrei dire meglio ella – si ripromettesse di affrontarne ancora altre due. Che nel poco tempo che mi rimane mi limito ad accennare sotto forma di due domande.

La prima domanda è questa: siamo sicuri che il perimetro disciplinare del sistema universitario ereditato dal passato sia ancora oggi accettabile? Do un solo dato: attualmente, se si somma il personale docente e ricercatore dei raggruppamenti disciplinari delle Scienze mediche a quello delle varie Ingegnerie – cioè se si somma il personale docente delle discipline professionalizzanti come nessun altra, nonché delle discipline massicciamente insegnate da docenti a loro volta impegnati nelle professioni e per quanto riguarda i medici oltretutto gravitanti nel Sistema sanitario nazionale – si arriva a una percentuale che rappresenta all’incirca un terzo di tutto il personale docente degli atenei italiani.


Nel futuro tempestoso che si annuncia la competizione sarà a tutto campo. Dunque, anche tra i sistemi culturali, le visioni del mondo e i valori che le animano, tra le culture e la loro capacità di dare forma all’universo dell’umano




Sarebbe sciocco chiudere gli occhi su ciò che un simile dato significa per la governance degli stessi atenei. E cioè che quei due raggruppamenti disciplinari – così specifici e diversi da tutti gli altri – in pratica detengono la “golden share” per l’elezione di qualunque Rettore. Se si facesse un banale calcolo si vedrebbe quanto una tale ipotesi corrisponda alla realtà.

Allora la mia domanda è questa: è conveniente che la guida degli atenei italiani, della ricerca e dell’istruzione superiore e quindi di una parte decisiva dell’orientamento culturale e ideale del paese, sia affidata in misura così rilevante a chi rappresenta settori disciplinari come Medicina e Ingegneria? Sono personalmente convinto che il modello humboldtiano cui s’ispira l’Università italiana – il modello che concepisce la ricerca e lo studio come un tutt’uno con l’insegnamento – costituisca tuttora un retaggio prezioso da salvaguardare ad ogni costo. Ma mi chiedo se si possa davvero dire che oggi la ricerca e lo studio abbiano il loro tempio soprattutto nei dipartimenti di Medicina e di Ingegneria.

Il dubbio circa l’opportunità di mantenere l’attuale perimetro disciplinare dell’Università italiana con la sua guida sempre più sbilanciata a favore delle discipline applicative – un tale dubbio è rafforzato dal destino catastrofico che da oltre un decennio sta colpendo le discipline umanistiche.

Tale destino ha riguardato in particolare le letterature, a cominciare dall’Italiano, e poi le discipline artistiche, quelle storiche e filosofiche, nonostante che – e qui la catastrofe acquista un aspetto paradossale – il numero di iscritti nei percorsi di studi umanistici, a dispetto di quanto comunemente si crede, sia cresciuto in proporzione maggiore rispetto ad altri ambiti disciplinari. Cito un solo esempio: nell’intero sistema universitario italiano dal 2011 a oggi il personale delle discipline storiche è diminuito del 15,8 per cento, quello delle scienze dell’antichità del 24,1 per cento.

E’ questa l’Università che vogliamo? Che cosa succede, mi chiedo, quando un paese taglia le proprie radici a questo modo, quando esso non si cura più di conoscere e studiare la propria storia


o quella altrui? Quando esso nulla più conosce del proprio patrimonio di pensieri e di valori?

Lasciatemi finire dicendo ancora una parola su questo punto con lo sguardo rivolto al nuovo scenario mondiale cui accennavo all’inizio e alle sfide che esso reca con sé. Quelle sfide riguardano anche l’intera Università. Nel futuro tempestoso che si annuncia la competizione, infatti, non sarà solo nella produzione e nello scambio delle merci e neppure solamente nell’ambito delle innovazioni scientifico-tecniche o nel potere militare. Ancora più di oggi la competizione sarà a tutto campo. Dunque sarà anche competizione tra i sistemi culturali, tra le narrazioni, le visioni del mondo e i valori che le animano, tra le culture e la loro capacità di dare forma all’universo dell’umano. Insomma su tutto quanto nei nostri atenei si pensa e si studia. E non nascondiamocelo: sarà una sfida politica nel senso più ampio della parola.

Ottanta anni fa, prendendo la parola all’Assemblea Costituente Concetto Marchesi parlò dell’istruzione, cito testualmente, come un “presidio della nazione”. E’ un’espressione che certo molti noi esiterebbero oggi ad adoperare. Ma è altrettanto certo, credo, che in futuro per l’Università italiana, internazionalizzazione non potrà voler dire solo internazionalizzazione della ricerca o accesso al mercato internazionale dei docenti e degli studenti. Significherà essere capace di affiancare il paese sulla scena del mondo accompagnando il suo sforzo per mantenere il ruolo non proprio secondario che la storia gli ha fin qui assicurato. Vorrà dire essere parte attiva e coordinata di quello sforzo.

In vista di un tale compito, ma non solo. è forse allora giunto il momento, quando parliamo della nostra istituzione, di deporre retorica, interessi e pregiudizi e avere, invece, il coraggio di guardare la realtà universitaria per quello che essa è realmente, con le sue contraddizioni, i suoi aspetti negativi, i suoi problemi. Come per l’appunto questa mattina io ho cercato di fare.

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