“La ragazza di Savannah” esce per il centenario della nascita della scrittrice. Vi si muove una Mary Flan bambina, in una fattoria in mezzo agli animali. Raccontò la fede e la violenza con grazia e spietatezza. La sua vita romanzata da Romana Petri
Non aveva ancora sei anni Mary Flan O’Connor quando insegnò a un pollo a camminare all’indietro. La cosa fece scalpore a Savannah, in Georgia, dove i suoi bisnonni, immigrati irlandesi molto cattolici, si erano insediati nella prima metà dell’800. Vennero persino a farle un filmetto da New York per infilarla in un qualche notiziario nazionale mentre marciava avanti e indietro insieme al pollo. E lei ritenne sempre quell’episodio – persino al confronto della successiva riconosciuta carriera letteraria – il successo più sfolgorante che avesse mai avuto. I pennuti erano la sua grande passione, che durò per tutta la vita. Vita che non le permise di sfiorare i quarant’anni visto che, soltanto ancora venticinquenne, le fu diagnosticata una gravissima malattia del sistema immunitario, il lupus eritematoso, che le aveva portato via nell’adolescenza il padre amatissimo. Era nata il 25 marzo del 1925 e se ne andò un 3 agosto del 1964. Fece comunque in tempo a pubblicare, con il nome Flannery, senza Mary né diminutivi, due imprescindibili romanzi: La saggezza nel sangue nel 1952 e Il cielo è dei violenti nel 1960, oltre a racconti magistrali e un mucchietto di conferenze letterarie. Scrisse anche un diario e moltissime lettere attraverso le quali si può ricostruire un carattere rigido ma autoironico, diretto e spiritosissimo, sereno ma a suo modo spietato.
E’ una delle rare narratrici, se non l’unica, che il femminismo non ha dovuto lottare per imporre. Il suo esorbitante talento è sempre stato fuori discussione anche presso lettori e critici maschi, il cui atteggiamento è ben illustrato nel suo caso dallo spocchioso giudizio di uno dei suoi primi critici, lo scrittore inglese Evelyn Waugh, che osservò incredulo dopo aver letto La saggezza nel sangue: “Se è davvero opera di una signorina, che ha fatto tutto da sola, è senz’altro degno di nota”. Flannery non commentò, ma in una lettera a Robert Lowell del 2 maggio 1952 racconta la reazione di sua madre che, pur senza capire un’acca del libro, era fierissima di lei: “Si è sentita profondamente offesa” racconta all’amico poeta Mary Flan. “Non ha mandato giù quel se e quel signorina. Ma insomma per chi ti ha preso? – mi fa. – E lui chi sarebbe?”.
E possiamo immaginare le risate che accompagnarono questo dialogo fra madre e figlia. Perché ridevano tanto insieme. E questo aspetto incredibilmente allegro in un destino certo non invidiabile viene fuori benissimo, direi in un modo che affascina particolarmente intorno alla personalità di O’Connor, nel felice romanzo di Romana Petri, La ragazza di Savannah, uscito per Mondadori in vista del centenario della nascita della scrittrice, nata appunto a Savannah in Georgia, profondo sud degli Stati Uniti. Vi si muove una Mary Flan bambina, che chiama per nome i suoi genitori, Edward e Regina, vive in una fattoria in mezzo agli animali, ed è terribilmente autocritica. Dice Petri, basandosi principalmente, penso, sulle lettere della O’Connor in cui la ragazza di Savannah fu sempre inesorabilmente sincera: “Si trovava goffa, inadeguata in ogni circostanza, di poche parole e incapace di manifestare i suoi sentimenti che, nella maggior parte dei casi, erano dominati dalla rabbia”.
Si vedeva brutta, anzi bruttissima Mary Flan, e pensava che una bambina così brutta non poteva essere amata da nessuno. Ma i suoi genitori l’adoravano, perché era una creatura incredibilmente intelligente e pure molto simpatica. Lei allora si sfogava con l’angelo custode che prendeva a pugni e calci nel chiuso della sua stanza, e la ragione era che non voleva intermediari fra sé e il Signore Iddio, in cui ha creduto profondamente per tutta la vita giustificandone, anche nel suo narrare, la tolleranza al Male. Del resto “il cielo è dei violenti” perché ciò che conta, nelle sue convinzioni come nella sua poetica, è la redenzione ed essere malvagi e poi arrendersi a Dio, redimersi, è la via verso il Regno dei Cieli. Che merito ci sarebbe altrimenti ad andare dritti in Paradiso nascendo naturalmente buoni? Non lo diceva anche Simone Weil nei Quaderni, “ha senso soltanto il Bene”, ma raggiunto con applicazione e fatica, con un disinteresse che non è di questo mondo?
Non voleva intermediari fra sé e Dio, in cui ha creduto profondamente per tutta la vita giustificandone, anche nel suo narrare, la tolleranza al Male
Romana Petri, nel suo romanzo che segue Flannery O’Connor fino alla morte, riesce a disegnarne un ritratto talmente vivo da dare l’illusione di averla conosciuta di persona, e questo per un’approfondita conoscenza dell’opera e della biografia certamente, ma soprattutto per una straordinaria capacità immaginativa sulla base dei fatti concreti. Fa vivere i suoi personaggi, reali o meno, attraverso serrati dialoghi perfettamente intonati alle voci che li pronunciano. Ci mostra Flannery che da piccola cammina come una papera e, quando sarà costretta alle stampelle per il progredire della malattia, arranca riuscendo però a procedere a veloci saltelli. Ma la goffaggine dei movimenti non va mai a scapito della personalità, brusca e dolcissima, sarcastica e compassionevole, disordinata fino al parossismo se si tratta dei suoi vestiti e precisa fino alla maniacalità nella scrittura.
Flannery che durante il periodo scolastico si studia i miti greci per conto suo perché quello che insegnano in classe non è altro che “sbobba” e, sempre a scuola, preferisce mescolare l’olio di ricino alla merenda per non essere costretta a scambi di cibo con gli altri.
Flannery che scrivendo decide di dedicarsi al realismo, ma “a un certo tipo di realismo” solo suo, e che della sua arte dice: “A me interessano le linee che creano movimento spirituale” oppure, usando le parole che le attribuisce Romana Petri: “Scrivere significa impolverarsi sulla strada della vita. E per farlo hai bisogno di un granello di stupidità”, ma diceva anche: “Io la chiamo grazia”.
Flannery convinta che chiunque sopravvive all’infanzia possiede abbastanza informazioni sulla vita per alimentare storie da scrivere fino alla fine dei suoi giorni. E però distingueva nettamente fra due forme della stessa attività: “Essere uno scrittore e scrivere sono due cose diverse – sosteneva – si può essere scrittori solo per pubblicare, e si può voler scrivere bene e basta”. E per scrivere bene e basta bisogna entrare “nel territorio del diavolo”.
Flannery che la mette così, in modo persino esageratamente modesto: “Personalmente affronto i problemi letterari proprio come faceva la governante cieca del Dottor Johnson quando versava il tè (per sentire se era caldo al punto giusto): metto il dito nella tazza”. Voleva dire che non si sa niente di preciso prima, è la stessa scrittura che ti indica nel suo farsi la direzione da prendere, il “calore” o il colore giusto.
Flannery che sa bene quanto una donna che scrive si trovi “sola a presidiare la fortezza” della propria indipendenza, del proprio tempo, delle proprie energie. Flannery che dopo aver pubblicato i suoi racconti viene invitata qui e là a tenere conferenze e dice: “Sono il tipo di persona alla quale piace essere da qualche parte, ma a cui non piace andarci”.
Diceva di affrontare i problemi letterari come quella governante cieca quando doveva sentire la temperatura del tè: “Metto il dito nella tazza”
Flannery che dalla passione per i polli passa all’allevamento dei pavoni – riuscì ad averne un’ottantina – perché osservarne la danza delle code squadernate è uno degli spettacoli più belli al mondo; solo che i pavoni sono refrattari a qualsiasi addestramento, camminano dove vogliono distruggendo gli ostacoli, con disperazione della signora Regina, che visse sempre insieme alla figlia bisognosa del suo aiuto. Flannery che quando sa di non poter fare a meno delle stampelle commenta: “D’ora in poi sarò una struttura ad archi rampanti”.
Flannery che, quando scopre di avere un cancro, lo annuncia all’amica Sally Fitzgerald con queste parole: “Ho un’ottima notizia. L’anemia non è dovuta al Lupus, ma a un tumore. Me ne hanno trovato uno così grosso che se non si danno una mossa a rimuoverlo, dovranno rimuovere me e lasciare lui”.
Amava Simone Weil e Edith Stein perché le permettevano di misurare la propria fede in Dio con la loro. In una lettera della fine del 1956 scrive dei Quaderni: “Sono libri che uno non arriva nemmeno a sondare, e Simone Weil è un mistero che dovrebbe renderci tutti umili, e io ne ho bisogno più di tanti altri. Per non dire che è un esempio di quella coscienza religiosa senza religione di cui forse prima o poi riuscirò a scrivere”. E il concetto di coscienza religiosa senza religione è una sintesi potente per esprimere la spiritualità di chi non intende riconoscersi nei dogmi delle varie chiese, ma nemmeno negare la fede nella superiorità del Bene e in un’invisibile entità creatrice.
Aveva gusti letterari molto precisi e mai banali. Giovanissima legge Faulkner, Kafka, Joyce, accanto ai cattolici come Mauriac e Bernanos. Naturalmente i grandi russi e Flaubert, Balzac, Hawthorne e Henry James. Nonché “quelle geniali svitate come Djuna Barnes, Dorothy Richardson, Virginia Woolf”, ma confessa un debole per Conrad e Edgar Allan Poe. Più avanti negli anni apprezzerà Nabokov, Proust e Céline, mentre il grande successo di Bonjour tristesse di Françoise Sagan la fa ridere fino alle lacrime e liquida un altro bestseller del 1960, Il buio oltre la siepe dell’americana Harper Lee (premio Pulitzer l’anno successivo), come “un bellissimo libro per bambini”.
Delle sue opere intanto si parla molto bene. Quando le dicono che Lillian Hellman l’apprezza, una narratrice dallo stile lontanissimo rispetto al suo, si mostra felicissima. Scrive in una lettera: “Quanto sono stata contenta di sapere che a Lillian Hellman piacciono i miei racconti. Mai, nemmeno lontanamente avrei pensato che fosse tipo da leggerli”. E quando il grande critico statunitense Russell Kirk, che non le era per niente simpatico, scrive in un articolo che “è fatta per l’eternità” stenta a crederci. E’ lui a mandare i racconti a T.S. Eliot e la reazione del grande poeta, quando la comunica all’amico, è a suo modo entusiasmante: “Sono terrorizzato da quelle storie che ho letto. O’Connor ha sicuramente un prodigioso talento. Di un ordine superiore, ma i miei nervi non sono forti abbastanza per sopportare un tale trambusto”. E un’altra poeta, Elizabeth Bishop, dai nervi evidentemente più saldi: “Flannery scrive maledettamente bene: economica, chiara, sconvolgente, reale”.
Ma non era solo cervello, Flannery O’Connor. Era stata, come ogni giovane donna, incline ai romanticismi. Aveva creduto a modo suo nelle fiabe e nei Principi azzurri. Aveva sognato di essere ricambiata dagli uomini che le piacevano, scontrandosi con rifiuti difficili da digerire. Non dimenticava di essere brutta, ma insomma forse non brutta brutta, si diceva, magari qualcuno avrebbe potuto cogliere la bellezza che si nascondeva dentro di lei e finire col vederla anche esteriormente, se non bella, almeno carina. Qualcuno come il giovane poeta Robert Lowell, conosciuto al college, che capisce subito il suo genio e ha con lei intensi scambi letterari, la introdurrà nell’ambiente culturale newyorkese e la giudicherà “eroica come una santa. Splendida e inappariscente”. Ma è disgraziatamente innamorato di un’altra, una donna bella e in gamba che poi sposa. E Flannery resterà sempre loro amica e lui le resterà nel cuore come il suo grande amore, visto che altri tentativi naufragarono altrettanto velocemente come con un ragazzo che l’aveva maldestramente baciata e poi si era inventato (o almeno questo fu il sospetto di lei) di volersi fare prete pur di liberarsene.
C’è una pagina di La ragazza di Savannah in cui l’amarezza autoironica della Flannery O’Connor immaginata da Romana Petri viene fuori con una grazia inventiva che ne disegna un ritratto più vero del vero. Madre e figlia, a cena, parlano del primo romanzo, La saggezza nel sangue, che sta per essere pubblicato:
“Hai poi accettato di farti scattare delle foto per la copertina?”
“Sì, le ho fatte. E sono davvero tutte brutte. Sono gonfia, mi stanno cadendo i capelli, ma ho dovuto sceglierne una. Mi ha colpito molto la mia espressione”.
“Che espressione hai fatto?”
“Di una che ha appena preso a morsi sua nonna, e con gran piacere. Comunque era la migliore. E comunque sembro una profuga in fuga da pensieri orrendi”.
Morì giovane. “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa”
Il lato eroico-religioso del suo carattere viene invece in primo piano in queste altre parole, scritte di suo pugno in una lettera: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa”. E come ha scritto la stessa Petri introducendo la raccolta di racconti Il geranio e altre storie alla fine del 2023 per minimum fax: “Flannery considerava la malattia il più bel viaggio che si potesse fare prima di morire. L’unica forma di conoscenza che ci viene concessa in vita, insomma un privilegio”.