Professori e studenti scendono in piazza contro i tagli di 1,2 miliardi all’istruzione voluti dal governo. A rischio interi corsi di laurea, lingue straniere e ricerca: “Perderemo lavoro, know how, specializzazioni e qualità dell’offerta accademica”, ci dice la direttrice del dipartimento di Lingua e cultura italiana all’Università di Leiden
L’Aia. Da qualche tempo i Paesi Bassi sono al centro di una nuova ondata di proteste. Ma non si tratta di agricoltori, No vax o altre sfere sociali abituate a scendere in piazza. “Per la prima volta tocca a noi professori. Assieme agli studenti: siamo di fronte al più grande attacco all’istruzione della nostra storia”. E l’attacco arriva da parte dello stesso governo olandese, che è pronto a tagliare 1,2 miliardi di euro tra atenei e ricerca. Un’enormità. “Perderemo lavoro, know how, specializzazioni e qualità dell’offerta accademica”. Carmen van den Bergh è direttrice del dipartimento di Lingua e cultura italiana all’Università di Leiden. E in queste ultime settimane ha vissuto in prima persona le prospettive di questa nuova stagione oscurantista. “I programmi piccoli come il nostro sono i primi della lista, costano poco ma vengono considerati superflui. Soprattutto se riguardano ciò che è straniero: rischia di sparire anche il francese, lo spagnolo, il tedesco. Gli studi islamici, russi e africani. Davvero vogliamo un’Olanda così impoverita?”.
A fine gennaio, a Leiden, il corso di laurea triennale in Studi italiani era stato già cancellato. “Un provvedimento drastico, inaspettato, senza motivazione economica”, spiega al Foglio van der Bergh. “Le riduzioni di budget annunciate dal governo non sono ancora effettive – si voterà ad aprile, ndr – ma intanto le università preferiscono correre ai ripari”. Compresa la più antica dei Paesi Bassi. “Anche per questo siamo riusciti a fare tutto il rumore necessario: abbiamo scritto una ventina di lettere alle istituzioni, coinvolto i colleghi, la folta comunità italiana in Olanda e contattato l’ambasciatore all’Aia”. C’è stata perfino una petizione online, con migliaia di firme raccolte. “La pressione era incessante. Così alla fine, i vertici dell’ateneo ci hanno ripensato. Per adesso siamo contenti, ma la vittoria è soltanto temporanea. Non sappiamo ancora quali altri tagli arriveranno. E saranno brutti”. In tutte le città universitarie. “Licenziamenti, stop ad assunzioni e borse di studio, abbandono di progetti edilizi nei campus: a Utrecht hanno già chiuso sei indirizzi, compressi in un nuovo piano di studi in forma ridotta. Entro il 2030 questa dinamica sarà ormai strutturale. A meno che non cada il governo”.
È l’effetto Wilders. “C’è chi sostiene così”. Il rigurgito nazional-populista che non risparmia nemmeno i liberalissimi Paesi Bassi. “Qualcosa è nell’aria: a farne le spese sono i corsi col maggior numero di stranieri e quelli insegnati in inglese”, continua la professoressa. “Il governo teme che si perda l’uso corrente dell’olandese, ma la lingua non si salva cancellando le altre. Con questi tagli invece si blocca anche l’enorme indotto di chi viene a studiare qui dall’estero. Una tendenza sovranista che non fa bene a nessuno”. Così il mondo accademico sperimenta inedite forme di dissenso. “Scioperi organizzati, ritrovi continui. Ci stiamo mobilitando in tutte le città”. Da Leiden all’Aia, passando per Amsterdam: la settimana scorsa nella capitale s’erano riuniti cinquemila manifestanti. Numeri importanti per una protesta di questo tipo. “Non siamo un gruppo avvezzo a questo tipo di palcoscenici, ma è un obbligo di solidarietà morale: per il nostro lavoro e per l’impatto effettivo sugli studenti”. Che atmosfera si respira, a questi raduni? “Quella di una bella comunità. Civile, compatta: oltre i fischietti e i cartellini rossi naturalmente non ci spingiamo. E insieme a noi protestano anche i vicerettori: loro devono comunicarci le brutte notizie, ma dietro le quinte stanno negoziando con l’esecutivo Schoof”.
Invano, per ora. “Si dice che un governo di destra non ami investire nelle università, nella scienza, nella cultura”. Guardare l’ultima manovra di Trump. “E quanto succede in Olanda purtroppo dà credito a questa teoria: dopo la Brexit”, fa notare van den Bergh, “il nostro paese aveva ereditato con successo il ruolo attrazionale del Regno Unito per gli studenti anglofoni”, cambiando il baricentro comunitario. “Un’enorme opportunità economica e di arricchimento intellettuale, che portiamo avanti da un decennio. Ora però stiamo abbandonando questa posizione unica in Europa: se continuiamo così sarà il Belgio a farsene carico”. O qualche altro paese, di più aperte vedute.