Per capire il successo di Fantozzi dopo 50 anni basta aprire Instagram

Il ragionier Ugo si è conquistato la perennità che al cinema è concessa davvero a pochi. Villaggio diede la definizione perfetta del film, che vale ancora oggi: “Uno che cerca di essere uguale a tutti. Uno che costruisce il piedistallo della propria degradazione”

Dopo tutti i Gogol, i Kafka, i Čhecov tirati in ballo in questo mezzo secolo per spiegare l’ironia e il pessimismo fantozziani, la definizione più bella la ritrovo in un’intervista del 1975 al Corriere. Il film era uscito da pochi giorni in sala, Paolo Villaggio si era presentato con i dati del box office, intento a fare la media ponderata degli incassi nelle grandi città. “Fantozzi” era partito bene, ma galleggiava a metà classifica. Villaggio però non aveva dubbi. Era certo di superare il successo del libro e così fu.

Alla fine della stagione “Fantozzi” sarà primo davanti a blockbuster come “L’esorcista” o “L’inferno di cristallo”. Batterà tutti i grandi film italiani della stagione, “Profondo rosso”, “C’eravamo tanto amati” o una macchina da soldi come “Porgi l’altra guancia” con Bud Spencer e Terrence Hill, che all’epoca incassavano più di Checco Zalone. “Ma questo ‘Fantozzi’ alla fine chi è?” gli domandano dunque in quest’intervista. “E’ uno che cerca di essere uguale a tutti. Uno che costruisce il piedistallo della propria degradazione”. E in questa definizione che è perfetta, spietata, precisa, come sapeva essere Villaggio non c’è solo l’italiano del dopo-Boom o quello di sempre. Non c’è solo la “maschera nazionale”. Ci siamo tutti.

Se all’epoca “Fantozzi” era un ritratto dell’Italia degli anni Settanta, il posto fisso, la politica, le lotte sindacali, le vacanze, la ditta, le gite aziendali, oggi basta aprire Instagram per rendersi conto di quanto “Fantozzi” ci sia in giro nel mondo globale: tutti vogliano essere uguali a tutti. Tanti costruiscono il piedistallo o la vetrina della propria degradazione. “Fantozzi” si è conquistato quella perennità che al cinema è concessa davvero a pochi. Chaplin, forse Buster Keaton. Pochi altri riescono a farci ridere a tutte le età, ogni volta con una risata diversa. Prima da bambini per i capitomboli, la buccia di banana, la torta in faccia. Poi da adulti per l’amarezza, le umiliazioni, il gioco di specchi con le nostre meschinità. Mezzo secolo dopo è giusto però ricordare che il trionfo del film fu in gran parte anche merito della regia di Luciano Salce. Per convincersene, basta vedere la differenza tra i primi due Fantozzi e gli altri titoli venuti dopo. Non c’è storia.

Il “Fantozzi” di Luciano Salce è pieno di idee visive surreali: il nebbione da film horror della partita a tennis, l’arcangelo Gabriele, il tuffo sul tetto dell’autobus nella tangenziale, le giravolte in aria di Fantozzi, pallone aerostatico pieno di “acqua Bertier” che vola nei saloni del casinò di Montecarlo, o Fantozzi-cernia venduta al trancio, ibernato a Cortina, uomo-proiettile al circo. Colto, raffinato, eclettico, solo Luciano Salce poteva girare in quel modo folle e maniacale il remake della “La corazzata Potëmkin”, ormai immortalato in “Kotiomkin” (molte persone, inclusi i miei studenti di cinema all’università, che hanno visto una decina di volte “Fantozzi” e mai Ejzenštejn, sono convinte che esista da qualche parte un film russo o polacco del maestro “Einstein”, comunque muto, straziante, lunghissimo che si intitola così). Villaggio era tentato dalla regia. Poi, per fortuna, lasciò perdere. E Salce trasformerà una grande satira in un pezzo di cinema raffinato e immortale.

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