Oggi l’obiettivo di Netanyahu è “restare al potere”, mentre “i suoi rivali principali nei sondaggi sono più a destra di lui”. Intervista al giornalista di Hareetz e dell’Economist
Nonostante le numerose proteste contro il governo, in Israele manca un’alternativa. E non c’è una vera opposizione. Soprattutto, dice al Foglio il giornalista Anshel Pfeffer, “in Israele non c’è la sinistra. Non c’è nessun partito a sinistra che abbia la possibilità di arrivare al potere. C’è Benjamin Netanyahu e poi ci sono gli altri. I suoi rivali principali nei sondaggi sono più a destra di lui”. L’ex capo di stato maggiore delle forze di difesa Benny Gantz, dimessosi dal governo nel giugno scorso, ha detto che il paese è in pericolo per via delle divisioni interne, e non solo per via dei nemici esterni. L’ex primo ministro Ehud Olmert ha affermato che il paese si avvicina “alla guerra civile”.
Pfeffer, firma di Hareetz e corrispondente dell’Economist in Israele, è a Milano per partecipare all’evento di Sinistra per Israele con Lia Quartapelle, Ivan Scalfarotto ed Emanuele Fiano. Autore di “Bibi”, biografia del premier israeliano, Pfeffer, ebreo inglese con un piede in Italia (si è sposato a Casale Monferrato), segue da anni la vita “turbolenta” del politico del Likud. Oggi l’obiettivo di Netanyahu, dice, è “restare al potere. Stamattina si è svegliato ed era ancora primo ministro. Vive alla giornata. Israele sta combattendo una guerra contro Hamas a Gaza, Netanyahu sta combattendo una guerra per restare al potere”. Secondo Pfeffer, il premier “è un presidente molto reattivo, non è un leader proattivo. Quasi ogni decisione viene presa sotto pressione, per via degli alleati di estrema destra o dell’Amministrazione Trump o perché deve reagire a ciò che accade intorno a lui. E’ difficile parlare di ‘decisioni di Netanyahu’, perché non sono davvero decisioni sue”.
Le cose, per chi fa informazione in medio oriente, sono cambiate dal 7 ottobre, una data spartiacque per la società israeliana e per gli ebrei di tutto il mondo. “Non è che prima non ci fosse la guerra”, spiega Pfeffer, “abbiamo già fatto reportage sotto i razzi. Quello che è cambiato è che ora c’è una sensazione di tenacia. Con il trauma del 7 ottobre per un lungo periodo il focus dei media israeliani è stato quello di offrire le ragioni di un fallimento così incredibile della sicurezza, della leadership e dell’intelligence del paese. C’è molta rabbia e il dovere dei giornalisti israeliani è di dare spiegazioni, che è quello che fanno i giornalisti sempre: chiedere conto alle autorità e spiegare le cose ai lettori. Il nostro lavoro è diventato ancora più importante dopo il 7 ottobre”. E infatti, dice il giornalista, è stato fatto fin da subito un “lavoro eccellente per spiegare i differenti livelli di responsabilità, iniziando da come il governo di Netanyahu abbia lasciato che Hamas restasse a Gaza e diventasse sempre più forte, ignorando le sue minacce. E sono uscite varie inchieste che mostrano gli errori nelle valutazioni, anche tattiche e militari”. Vedendo i fallimenti di gestione, dice Pfeffer, “la gente è portata a creare teorie cospirazioniste perché non riesce ad accettare come sia successo. Perché sembra incredibile, c’erano i segnali”.
Poi, dopo l’attacco di Hamas, quasi ovunque nel mondo si è costretti a difendere l’esistenza stessa dello stato sionista, soprattutto da una certa sinistra. “E’ un insulto dover difendere l’esistenza di Israele”, ci dice Pfeffer. “E’ un dibattito fondamentalmente sbagliato. Non dovrebbe proprio essere una questione. Ci sono altri paesi dove le persone devono difenderne l’esistenza quando il loro governo fa qualcosa di sbagliato? No”.
A breve uscirà un nuovo libro di Pfeffer, “No king in Israel, the Jewish state and its demons”, che riprende un versetto dell’Antico testamento: “In quel tempo non c’era re in Israele; ognuno faceva ciò che sembrava giusto ai suoi occhi”. Il libro racconta le fratture e le contraddizioni del paese che, spiega Pfeffer, c’erano già ma “negli ultimi due anni sono salite in superficie”. Tutto parte nel 2022, col ritorno di Bibi, e con nuovi problemi nella diplomazia israeliana. Da allora si è parlato sempre meno del futuro, di policy e “di sostanza” e da nessuna parte “c’è una vera leadership o politici che pensano a come guidare il paese domani, neanche nell’opposizione”.
“Non è facile guidare un paese dove la religione ha una parte così centrale nella politica”, soprattutto se hai nemici come Iran, Hamas ed Hezbollah. “In Israele puoi vivere una vita ‘occidentale’, il pil è più alto di quello italiano, c’è una tecnologia avanzatissima e allo stesso tempo una guerra tribale a Gaza, e una destra religiosa sempre più influente. Gli israeliani ora si stanno chiedendo chi sono”.