Il buonsenso della “borsa della resilienza” proposta dalla Commissione europea

Prepararsi a un’interruzione temporanea dei servizi essenziali non equivale ad allarmismo: è ciò che ogni sistema dovrebbe promuovere. In Italia il dibattito si concentra sulla paura della guerra, ma il vero problema resta la carenza di educazione al rischio

In questi giorni si discute delle parole di Hadja Lahbib, Commissaria Ue per la Gestione delle Crisi, secondo cui è fondamentale che ogni stato membro istruisca i propri cittadini sui pericoli che l’Europa potrebbe dover fronteggiare nel prossimo futuro. Si parla di eventi climatici estremi, terremoti e persino guerre, soprattutto alla luce del brusco risveglio inferto all’Europa, dormiente e paciosa, dall’invasione russa dell’Ucraina.

La Commissione sta delineando strategie di gestione del rischio che spaziano da un miglior coordinamento dei servizi di intelligence e delle protezioni civili a campagne di comunicazione, fino al semplice suggerimento che tutti i cittadini siano pronti a resistere ed essere autonomi per almeno 72 ore grazie alla cosiddetta “borsa della resilienza”. Ecco, visto il clamore mediatico, voglio parlarvi di questa borsa.


Cos’è? Semplice: si tratta di approntare scorte di prima necessità – acqua, viveri, medicinali e simili – che consentano di sopravvivere per alcuni giorni in situazioni di emergenza estrema. Da studioso del rischio, per me la vera notizia non è la proposta di una simile borsa (che il buon Zamberletti proponeva decenni fa), quanto la sorpresa e l’attenzione che media e politica le stanno dedicando.

Chiaramente i pacifisti (in buona fede o meno) si soffermano solo sul rischio di guerra, e vedono la borsa come un primo thaleriano “nudge” verso l’accettazione di un possibile conflitto armato, e quindi del piano ReArm Eu. Nel fare questo, trascurano il rischio concretissimo rappresentato da eventi naturali come terremoti, eruzioni vulcaniche o alluvioni, capaci di isolare intere aree per giorni.

È buffo e spaventoso che non si comprenda l’utilità, il buonsenso di una tale borsa, o che la si sfrutti per bieca agenda politica, potenzialmente mettendo a rischio delle vite. Sì, perché avere a disposizione acqua potabile, una coperta e delle bende può letteralmente salvare vite. Non si può solo sperare nei miracoli della protezione civile.

Prepararsi a un’interruzione temporanea dei servizi essenziali non equivale ad allarmismo: è ciò che ogni sistema resiliente dovrebbe promuovere. La Svizzera da anni consiglia di avere scorte per almeno 7 giorni, offrendo persino un sito ufficiale per calcolare cosa tenere in casa. Lo stesso vale per Norvegia, Finlandia e Giappone.

Il fatto che questa semplice raccomandazione venga percepita come catastrofista in Italia, rivela un problema serio: la nostra carenza di educazione al rischio. Ritengo questo uno dei principali fattori del declino italiano, in quanto l’Italia è ormai una società del rischio rimosso (ne scrissi su queste pagine), in cui i pericoli vengono negati fino al momento in cui diventano ineludibili, per poi lamentarsi delle conseguenze. Ignorare il rischio, o limitarsi al fatalismo, deresponsabilizza politica e cittadini, crea paralisi.

Per decenni il rischio è stato comunicato in maniera inadeguata: o minimizzato (“non vi preoccupate”) o drammatizzato (“si salvi chi può”), ma mai normalizzato. Eppure, il rischio è una delle massime espressioni dell’essere umano. Senza umanità non esisterebbe il rischio, perché non esisterebbe chi lo valuta e chi lo subisce. Senza rischio non ci sarebbe il libero arbitrio, e viceversa.

La pandemia è stata un esempio lampante: inizialmente abbiamo sottovalutato la possibilità di un simile evento, nonostante i dati indicassero il contrario, per poi cadere nel panico, con una cattiva comunicazione del rischio che ha aggravato le conseguenze, replicando gli errori degli anni ’80 nel caso dell’Aids.

Prepararsi non significa vivere nella paura, ma riconoscere che le crisi accadono e che possiamo affrontarle meglio. Eventi estremi, blackout, cyberattacchi: le interruzioni dei servizi essenziali possono solo aumentare. Prepararsi è realismo, non paranoia o bellicismo. Anzi, considerando la possibilità di un nuovo evento simile a quello di Carrington, prepararsi per sole 72 ore appare addirittura ottimistico. Per chi non lo sapesse, un“evento alla Carrington” è a una tempesta solare di proporzioni eccezionali, come nel 1859. Oggi, un evento simile potrebbe paralizzare infrastrutture vitali come la rete elettrica, i sistemi di comunicazione e i trasporti, provocando ingenti danni economici e sociali. Alcuni ricercatori stimano una probabilità superiore al 10% che avvenga nel prossimo decennio.

Una cultura del rischio matura non elimina i pericoli, ma li rende gestibili. Una torcia, qualche litro d’acqua e un piano ben definito non sono segni di panico, non sono uno scandalo, sono consapevolezza. La realtà esiste, che la si riconosca o meno. Estote parati (siate pronti), lo dice anche il Vangelo.

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