La risposta dell’Ue a Trump sia finanziaria, non nuovi dazi

Le misure annunciate dal presidente americano avranno un effetto dannoso sugli Stati Uniti e sui suoi partner esteri, tra cui l’Europa. Ecco perché serve puntare sull’Unione dei capitali e sul debito comune europeo: strade meno aggressive e più di lungo periodo

Dal suo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato una cifra record di ordini esecutivi. Tra questi c’è l’introduzione di dazi al 25 per cento su tutti i prodotti da Canada e Messico e sull’acciaio e l’alluminio da tutto il mondo. Il presidente statunitense ha annunciato di voler estendere i dazi al 25 per cento a tutte le importazioni globali. L’inizio di questa guerra commerciale ha scosso i mercati finanziari statunitensi e ha allarmato gli esportatori esteri, che in alcuni casi hanno bloccato le consegne verso gli Stati Uniti.

L’obiettivo di Trump è quello di sanare il deficit commerciale, ovvero la differenza tra il valore delle importazioni e quello delle esportazioni. Dagli anni ‘80 di Reagan a oggi, gli Stati Uniti importano più di quello che esportano: lo scorso anno il deficit ha raggiunto la cifra record di 1.130 miliardi di dollari. La spiegazione più immediata a questo squilibrio potrebbe essere una maggiore competitività industriale degli altri paesi rispetto agli Stati Uniti, che indurrebbe i cittadini americani ad acquistare beni e servizi esteri più di quanto gli altri acquistano quelli statunitensi.

Tuttavia, quando si parla di commercio internazionale, è importante non trarre giudizi affrettati sulle cause dei saldi della bilancia commerciale. Questi non riflettono soltanto la competitività industriale di un paese, ma il risultato di un equilibrio che si genera tra due mercati distinti: quello dei beni e dei servizi, e quello finanziario. Bisogna infatti considerare che, quando gli europei incassano i dollari da oltre oceano grazie al surplus commerciale non li lasciano sotto il materasso, ma li investono proprio negli Stati Uniti, acquisendo imprese o prestando fondi a società, cittadini e al governo federale. Questo non è solo un rapporto di causa-effetto ma un’identità contabile ben nota agli economisti e dalla quale non si può sfuggire: il valore del deficit commerciale è sempre uguale e opposto a quello del flusso netto dei capitali. Il deficit commerciale degli Stati Uniti non è quindi necessariamente causato dalla debolezza dell’industria americana nei confronti di quella europea, messicana o cinese, ma anche e soprattutto dall’attrattività della finanza americana. Sono gli investitori di tutto il mondo che investendo in azioni statunitensi e, prestando i propri risparmi, generano il deficit commerciale americano.

I dazi non saranno quindi in grado di chiudere il deficit commerciale americano, anzi avranno un effetto dannoso sugli Stati Uniti e sui suoi partner esteri, tra cui l’Europa. Un mito attorno ai dazi rilanciato oggi da molti elettori repubblicani sostenitori di Trump è che a pagarli siano le aziende esportatrici estere. Non è così: i dazi sono pagati dagli importatori, in questo caso quelli statunitensi, i quali si trovano costretti a scegliere tra ridurre i propri profitti o trasferire i costi aggiuntivi sul consumatore finale, causando inflazione.

Il think tank Tortuga, con il proprio modello di commercio internazionale, ha stimato gli effetti di medio periodo che i dazi americani al 25 per cento e gli eventuali contro-dazi imposti dal resto del mondo verso Stati Uniti avranno sull’economia globale. Per quanto riguarda il pil, il Canada sarebbe tra i paesi più colpiti, con una perdita dell’1,5 per cento in caso di dazi statunitensi, che peggiorerebbe a al 2,7 per cento in caso di contro-dazi; il Messico perderebbe rispettivamente l’1 e il 2,2 per cento. Anche gli Stati Uniti non ne uscirebbero indenni, con perdite rispettivamente dell’1,1 e dell’1,8 per cento. In Europa sarebbe l’Irlanda a soffrire maggiormente la guerra commerciale: a causa della sua dipendenza dalle esportazioni verso gli Stati Uniti perderebbe rispettivamente l’1,6 e il 2,8 per cento. Le perdite per Germania, Francia e Italia dovrebbero essere limitate allo 0,1 per cento del pil. Saranno però significativi gli effetti sui prezzi, che in Italia aumenterebbero dell’1,4 per cento in linea con il resto d’Europa, ponendo nuove sfide alle politiche monetarie delle Bce. Anche per gli Stati Uniti i dazi avrebbero effetti significativi sui prezzi, con aumenti che stimiamo fino al 5,3 per cento.

Come dovrebbe rispondere l’Unione europa alla minaccia di Trump? Nel dibattito sembra scontato che la risposta naturale ai dazi siano i contro-dazi. Quello che però suggerisce la teoria economica è che i dazi in sé potrebbero essere una punizione sufficiente, anche se autoinflitta, senza bisogno di aggiungere contro-dazi. Al contrario, proprio per la natura finanziaria del deficit commerciale statunitense, la risposta europea dovrebbe essere finanziaria. L’Unione europea potrebbe proseguire l’integrazione finanziaria dei mercati dei capitali, una strada forse meno aggressiva ma più strategica e di lungo periodo. Il primo canale sarebbe l’Unione dei capitali, che renderebbe il mercato europeo più liquido ed efficiente, attraendo almeno parte dei capitali che oggi fluiscono verso gli Stati Uniti alla ricerca di rendimenti migliori.

Il secondo canale sarebbe quello del debito comune europeo. Per i paesi europei più piccoli è di fatto impossibile indebitarsi all’estero. Messo in termini pratici, ciò significa che, mentre è frequente che un investitore lituano investa nel debito pubblico americano, è quasi impossibile che avvenga l’opposto. Usare debito comune europeo anziché nazionale per progetti come il ReArm Eu, aumenterebbe quindi la possibilità che questo venga acquistato dall’estero, aggiustando gli squilibri commerciali.

In un contesto in cui l’adozione di politiche protezionistiche e sanzioni unilaterali da parte di Washington, unita a un disallineamento con i tradizionali alleati, potrebbe indebolire la percezione di stabilità e affidabilità del dollaro, gli investitori e le banche centrali cercherebbero alternative. E’ in questa cornice che un mercato dei capitali europeo più integrato, sostenuto dal debito comune, accelererebbe la diversificazione valutaria, riducendo la dipendenza dal dollaro, rafforzando la capacità dell’Unione europea di competere nella finanza globale, riducendo gli squilibri della bilancia commerciale.


Tortuga è un Think-Tank composto da giovani ricercatori e studenti del mondo dell’economia e delle scienze sociali.

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