Abbiamo più canali televisivi, più piattaforme, più contenuti. Ma anche più avvertimenti, più spoiler, più sensi di colpa. E alla fine, il vero intrattenimento è sparito sotto il peso della sua stessa premessa
Sono passati quasi quarant’anni da quando Renzo Arbore, ben a ragione, cantava che “tu nella vita comandi fino a quando / hai stretto in mano il tuo telecomando”. All’epoca c’erano sì e no sei canali; ora che il potere del telecomando si è esteso a dismisura, con la proliferazione di piattaforme ciascuna delle quali è un pozzo senza fondo, la libertà di intrattenimento non sembra essere cresciuta in proporzione. Nel senso che, l’altro giorno, guardando l’ennesima puntata di una serie tv avventurosa, ho dovuto sorbirmi la ramanzina iniziale per cui mi veniva detto attenzione, le scene che seguono contengono terremoti e catastrofi naturali che possono turbare la sensibilità dello spettatore; il quale spettatore, che ero io, si ritrovava così a sapere sin dall’inizio della puntata che a un certo punto un terremoto e una catastrofe naturale avrebbero piegato il corso degli eventi e addio sorpresa, addio sospensione dell’incredulità, addio intrattenimento.
Mentre Arbore cantava la sigla di “Indietro tutta” nessun disclaimer scorreva per annunciare che, attenzione, le scene che seguivano avrebbero contenuto ragazze vestite da gallina, canzoni napoletane, inesistenti marche di cacao e quiz fasulli – anzi, tutto era giocato sull’ambiguità fra vero e non vero, fra adesione alla realtà e finzione parodica. Né tanto meno appariva l’ipocrita avvertimento avvolto dal sentore di leguleio che va di moda adesso, ossia “la visione è a discrezione dello spettatore”. All’epoca mi illudevo fosse il telecomando stretto in mano a darmi facoltà di discernere cosa guardare e cosa no, ed ero felice della mia scelta limitata ma leggera; oggi invece, nell’epoca della libertà assoluta obbligatoria, la tv mi rinfaccia che, se la guardo, è colpa mia.