Antonio Candreva ha detto addio al calcio giocato

Ha annunciato il ritiro uno degli eroi minori degli ultimi 15 anni di Serie A. Aveva iniziato come trequartista, poi Edy Reja alla Lazio lo ha spostato sulla fascia ed è iniziata la sua seconda carriera che lo ha portato a giocare 57 volte (con 7 reti) in Nazionale

Con un messaggio sui social dai nemmeno troppo celati richiami al “Dear Basketball” di Kobe Bryant, Antonio Candreva ha atteso la sosta nazionali per comunicare il suo addio al calcio. Ha cercato, evidentemente invano, di ritrovare una squadra per mesi: le prestazioni degli ultimi due anni giustificavano l’ambizione, andata però a sbattere contro troppe porte chiuse. Lascia il calcio uno degli eroi minori degli ultimi 15 anni di Serie A, capace di attraversare praticamente tutto l’arco dell’esperienza di vita caro ad Arbasino: da bella promessa a venerato maestro, passando per l’immancabile tappa del solito stronzo.

Era un trequartista intrigante e promettente, Antonio da Tor de’ Cenci, passato nel florido vivaio della Lodigiani prima di spiccare il volo verso Terni. Un passaggio all’Udinese, tanti prestiti (Juventus inclusa, senza troppa gloria), la sensazione che il treno stesse per passare definitivamente. Poi, di colpo, un bivio. Alla fine del mercato di gennaio del 2012, in quei momenti in cui la disperazione sembra dominare sulle buone idee, uno scambio di prestiti all’apparenza privo di significati: Simone Del Nero a Cesena, Candreva alla Lazio. Basta poco per trasformare una carriera. Ha trasformato i fischi (per il presunto tifo romanista) in applausi e trovato la collocazione in campo, diventando un giocatore centrale allargandosi sulla fascia dopo anni in cui era stato marginale pur giostrando al centro. A Reja il merito dell’intuizione, a chi è arrivato dopo di lui, i vari Petkovic e Pioli, quello di non averla dispersa. Sempre da destra, partita dopo partita, Candreva si è conquistato il suo posto al sole, facendo piovere cross, non sempre ispiratissimi a dire il vero, come una di quelle macchine sparapalle. E poi l’indubbia qualità balistica: nelle rassegne di gol che circolano in queste ore, si possono ammirare traiettorie folli che sembrano telecomandate dal destro del numero 87, l’anno di nascita che per molti club, in questi mesi, ha rappresentato un ostacolo troppo grande alla prospettiva di offrirgli nuovamente un contratto.

Lasciata la Lazio per l’Inter, non senza polemiche dopo una stagione in cui non gli era stata messa al braccio la fascia da capitano, si è ritrovato a essere soldato semplice dopo anni da generale. Ha indossato l’elmetto al servizio di una squadra prima sgangherata (De Boer-Vecchi-Pioli) e quindi via via più centrata (Spalletti, Conte), lasciandola all’alba della stagione dello scudetto per andare a dispensare meraviglie a Genova prima, sponda Samp, quindi a Salerno, ritrovando sempre più spesso il centro del campo dopo anni spesi a correre a perdifiato avanti e indietro sulla fascia, finalmente venerato maestro con la sua capacità di trovare meraviglie dal nulla.

Ha detto spesso di preferire l’assist al gol e allora l’occasione è buona per celebrare un suo cross sepolto, dimenticato, che in questo lungo peregrinare senza meta della Nazionale azzurra (54 presenze e 7 gol con la maglia dell’Italia) ha preso polvere, ed è diventato come uno di quei libri che per sbaglio finiscono dietro agli altri. Manaus, 14 giugno 2014, al gol di Marchisio risponde Sturridge a fine primo tempo. È la prima gara del girone del Mondiale brasiliano, l’Italia è carica di speranze che verranno presto spazzate via. Al quinto della ripresa, boicottando il piede preferito, il destro, Candreva rientra sul mancino e disegna un arcobaleno che trova vita sulla testa di Mario Balotelli. È l’ultimo gol dell’Italia in un Mondiale. Che nostalgia.

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