Miagolano col medesimo registro mellifluo, hanno lo stesso sguardo trasognato, carezzano alberi e amano vivere con lentezza, a dispetto dell’alacrità con cui postano a ripetizione i loro appelli al vitalentismo. Contro una condizione messa sul podio delle aspirazioni collettive
Se confondessimo Instagram con la realtà – ma non accadrà, siamo stati educati nel Novecento – saremmo portati a credere che gli insegnanti italiani non abbiano niente di meglio da fare che lavorare intensamente per trasformarsi in influencer. Questa nuova specie di docenti si riconosce da alcuni elementi: miagolano col medesimo registro mellifluo, hanno lo stesso sguardo trasognato, carezzano alberi e amano vivere con lentezza, a dispetto dell’alacrità con cui postano a ripetizione i loro appelli al vitalentismo. Si impaniano in quel genere di espressioni naïf che li certificano come poeti, e infatti, tempo tre reel e tiè, infliggono le loro filastrocche emozionali a utenti con la rotula reattiva, agili a prosternarsi per applaudire la straordinaria sensibilità. Talvolta, questi guidogozzano di cilindrata Zuckerberg, piangono addirittura mentre leggono versi e capoversi: si commuovono a favor di Samsung, tirano su col naso mentre vigilano sull’inclinazione dell’iPhone affinché ne immortali le cartilagini alari, crollano emotivamente davanti alla grande bellezza di quasi tutto premurandosi di non premere troppo presto Stop. Le reazioni dei follower vanno dallo spudorato struggimento (“ho pianto tantissimo, grazie!”) alla svenevole ammirazione (“ci fosse più gente come te il mondo sarebbe miglioreee”), tutti a mollo nella pozzanghera della venerazione di Pavlov al punto da lasciarsi sfuggire lepidezze tipo – cito da un commento – “il compito di un insegnante dev’essere proprio questo: educare i giovani alla fragilità”. Ma davvero? Davvero la scuola deve dire ai ragazzi “siete fragili, ottimo, avanti tutta”?
La questione è delicata solo perché viviamo un’epoca con tratti demenziali. Ma volendo far pulizia di un luogo comune ormai sulla bocca di chiunque, bisognerebbe, semmai, affermare che la fragilità, in sé, non è un valore. E nemmeno un’etica. E’ una condizione, a volte transitoria, e chissà se auspicabile. Averla messa sul podio delle aspirazioni collettive, rivendicarla, riverirla, consegnarle l’alloro e tre risvolti di copertina su quattro, offre solo la rappresentazione del grottesco permanente in cui ci siamo sigillati. Il che non vuol dire che la si debba rifiutare o nascondere, o che non la si possa usare per conoscere sé stessi, ma il cedimento collettivo al culto della fragilità in sé è l’ennesimo sottoprodotto di una cultura che non sa comprendere più alcun valore spirituale, anziché il contrario come i fragilisti pretenderebbero. Tutto manicheismo, più una falsa equivalenza: se forza uguale forza bruta cioè male, fragilità uguale squisita sensibilità cioè bene.
Fragilità: “Facilità di rompersi al minimo urto e alla minima occasione; in medicina, la tendenza di alcuni tessuti a lesionarsi facilmente”. Il Devoto Oli non aiuta a innamorarsene.
Come non pensare a Seneca? Scusate se ancora si preferisce frequentare Illustri Tardoni anziché un mazzo di freschissimi mitomani su un social, ma le Lettere a Lucilio sono un vero manuale per l’esistenza in centoventiquattro puntate scritte. E che raccomandano la necessità di guadagnare a sé stessi il bene sommo: la stabilità interiore, a fronte dell’incertezza dell’esistenza. Ora, immaginiamo se, per un momento, Seneca si trovasse oggi su Instagram e, come un qualsiasi influencer con cattedra, postasse le sue Stories ad Lucilium secondo le indicazioni virgolettate poco sopra: non più “continua a navigare anche con la tela a brandelli” ma “abbandona la nave strillando, hai sempre ragione”; non più “la maggior parte degli uomini oscilla miserevolmente tra la paura della morte e i crucci della vita: non sa vivere, non vuole morire”, ma “siate miseri, strappatevi i capelli, il tempo speso a fuggire è l’unico che vale”. E via con gli inviti a cedere, a stramazzare, a lasciarsi vincere. Un grande inno allo schianto.
Pasolini, ne Le belle bandiere, scriveva: “La forza della ragione, con la resistenza morale che essa dà.” La forza, sì. Quella a cui è un dovere morale aspirare: la forza di un animo capace di comprendere gli altri, di penetrare il senso delle cose ricavandolo dalle difficoltà così come dalla bellezza, l’educazione costante ad ascoltare la vita e non solo sé stessi.