Un libro su una stagione di album memorabili: il momento e la città in cui il rock si salvò

Da David Bowie a Iggy Pop, passando per Depeche Mode, Yazoo e Sonic Youth. Un tuffo nella Berlino della seconda parte degli anni Settanta, descritto da Andrea Cerasi. Alla ricerca di un suono oscuro e traboccante di elettronica

Perdersi e ritrovarsi: è la definizione che David Bowie dava per descrivere quell’esperienza che ha rappresentato un punto di svolta nella sua vita e nella sua carriera artistica, ovvero il soggiorno berlinese nella seconda parte degli anni Settanta. In quel momento la città tedesca è un unicum, folle, contraddittorio e desolato, del quale però alcuni artisti capiscono di poter approfittare per riambientare, sospingere e perfino rilanciare la propria parabola creativa. Insomma, una specie di benefico, sebbene periglioso, sanatorio a cielo aperto, per sperimentatori disposti a spingersi molto avanti, col rischio di andare giù a fondo.

Ne parla con intensità e intrattenimento “Achtung! – Berlino, gli Hansa e la musica che ha cambiato il mondo” (Arcana, 200 pp., 16,50 euro) il volume di Andrea Cerasi scritto dopo un accurato lavoro di documentazione e a posteriori del sospirato pellegrinaggio in cerca degli ultimi indizi d’un passato che si va cancellando. Del resto non è mai tramontato il mito rock di “Bowie a Berlino” e della radicale metamorfosi vissuta dall’artista in quel suo volontario esilio nella città-rifugio per antonomasia, reduce dall’insulso periodo californiano connotato da eccessi di ogni genere e dallo scadimento della vena creativa.

E’ un uomo alla deriva il Bowie che giunge a Berlino, culla dell’arte espressionista che egli adora, calandosi in quel contesto disgregato ma punteggiato da fiotti di energia e covi di libertà. Denuncia disturbi alimentari, dipendenza dalla cocaina, psiche disturbata da flash paranoici e cerca un buco dove essere anonimo, respirare, riprendere la ricerca della radice della propria vena artistica, corroborandola con stimoli nuovi. Tutto ciò è esattamente la Berlino del momento, nel ’76, estrema rappresentazione di distruzione e vuoto fantasmatico, iconizzato dalle strade che circondano il Muro che separa le due Germanie. “A Berlino a nessuno frega un cazzo di te” dichiarerà con entusiasmo Bowie in un’intervista, poco dopo il suo trasferimento.

Ma nella città divisa le note musicali riescono ancora a circolare con disinvoltura, anche scavalcando il Muro e facendosi captare dalle antenne attente dall’altra parte, dove i giovani osservano con devozione ciò che succede a ovest. E nella Berlino occidentale la musica si è estremizzata, come reazione al momento assoluto che la nazione divisa sta vivendo: si diffonde il krautrock elettronico dei Tangerine Dream, dei Popul Vuh e degli Ash Ra Temple, ha successo il punk teatralizzato di Nina Hagen, le cantine di Kreuzberg pullulano di forestieri e visitatori particolari, interessati a immergersi in quelle atmosfere e ad assaporare la decadenza, per farne materia del loro suono. E poi, giusto a ridosso della Striscia della Morte che separa i due mondi, ci sono gli Hansa Studios dei fratelli Meisel, con le finestre che si affacciano su quella ferita della civiltà. E’ un luogo spartano, ruvido, lontano dalle comodity nelle quali vengono coccolate le star: ma l’acustica è ottima, l’assistenza competente, i costi bassissimi e l’atmosfera fa il resto, insieme a quella dei club, dei bar, dei ritrovi gay, delle boites underground, del pulviscolo di trasgressiva, intransigente indipendenza che si respira nell’aria.

I clienti si affollano. Bowie, Iggy Pop, Tony Visconti, i nuovi artisti dell’etichetta britannica Mute – Depeche Mode, Yazoo, Sonic Youth – che al momento va per la maggiore. In contrapposizione al deflagrare degli orpelli glam, nasce un suono “berlinese”, oscuro, denso di paranoia, con riverberi di violenza, traboccante di elettronica. Dal 1980 sono gli Einsturzende Neubauten di Blixa Bargeld il gruppo locale che funge da faro per illuminare l’ispirazione di questi turisti dell’ispirazione, il più rappresentativo dei quali è forse l’australiano Nick Cave, che coi suoi Bad Seeds coniuga filamenti del post-punk con l’ermetica inquietudine che permea queste sessions.

Bowie in particolare, attraverso il formidabile sodalizio con Brian Eno, sforna album memorabili, destinati a diffondere in tutto l’occidente la sensazione che in quella capitale della contraddizione si stiano momentaneamente individuando le strade per restituire linfa vitale al suono rock rimasto annichilito dall’onda punk. La scena berlinese diviene elettrizzante, con novità e capolavori sfornati a ripetizione sotto gli occhi del mondo, mentre Bowie completa l’identificazione con Marlene Dietrich, l’elettronica è il nuovo verbo e la città è scossa da un risveglio e da un’estasi che durerà quasi un decennio. Sono primi sintomi di una rivoluzione. Che quando arriverà, abbattendo il Muro, nella musica sarà già consumata mentre visionari e innovatori – come sempre accade – avranno già traslocato altrove e saranno passati oltre. Berlino comincerà il lungo procedimento per ritrovare la propria pace. E gli Hansa Studios terranno duro al loro posto, come la cattedrale commemorativa del momento cui la musica ferocemente si salvò, ritrovando il proprio spirito più romantico e brutale.

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