La vita come opera d’arte. Hermann Kurzke attraversa i romanzi, i racconti e i diari del Premio Nobel 1929, documentando come le tendenze omosessuali dell’autore de I Buddenbrook si trasfondano nella sua prosa
Il tema del dissidio interiore fra passione terrena e vocazione artistica, centrale nella riflessione del romanticismo tedesco, percorre l’intera opera di Thomas Mann. La consapevolezza di una scissione fra vita e opera è, di per sé, il segno distintivo di una chiamata elettiva, a cui non ci si può sottrarre. Sicché non resta che volere la creazione, o, meglio, non-volere, ovvero lasciare allo spirito l’ultima parola e fare della propria vita un’opera d’arte. A centocinquant’anni dalla nascita e a settanta dalla morte, è di nuovo in libreria la biografia Thomas Mann. La vita come opera d’arte di Hermann Kurzke, storico della letteratura e teologo, fra i massimi esperti del grande scrittore tedesco (Carocci, 2025, pp. 669). Kurzke attraversa i romanzi, i racconti e i diari del Premio Nobel 1929 documentando come le tendenze omosessuali dell’autore de I Buddenbrook si trasfondano nella sua prosa, in qualità di malìe più o meno segrete: impulsi erotici e istinti primitivi, morbosi, uniti a pulsioni autodistruttive, abitano, brulicanti, un luogo tanto pericoloso quanto vitale.
A ogni modo, per lui come per Tonio Kröger o Gustav von Aschenbach, l’omoerotismo assurge a potenza creatrice e via di fuga, risvegliando la vocazione a essere scrittore. Come il punto cieco di un autoritratto sottrae al volto la sua stessa raffigurazione, donandogli in questo modo la bellezza dell’indefinito, così l’impulso, sacrificato e cristallizzato nel rituale della casta quotidianità borghese, viene trasfigurato e sublimato nella costruzione narrativa e schiude la sua purezza sul terreno che solo gli si confà, quello, quello dell’arte. Tuttavia, come osserva Lukács, nei romanzi di Thomas Mann proprio gli artisti sono i veri borghesi. Cionondimeno, l’arte rimane esclusa fatalmente dal banchetto della vita; il punto di vista dell’“eletto” non può che essere ironico, financo parodistico, in quanto è già da sempre in fuga. Peculiarmente regressivo, spesso lo scrittore “non inventa, ma trova” rivolgendosi alle scene infantili o adolescenziali, soprattutto alla loro vaghezza e sfocatura. L’“autentico” ha il suo camerino ed è, al tempo stesso, un golfo mistico denso di ricordi: Lubecca, Monaco, la madre che suona Chopin e racconta la fiaba dell’uomo senza sonno, i primi amori, Williram Timpe e i “trucioli della matita” – episodio di cui resta traccia ne La montagna incantata; e, ancora, l’odio per la scuola e la rivalità con il fratello Heinrich; l’amato Paul Ehrenberg e la moglie Katia Pringsheim, le rivendicazioni di Adorno, la Svizzera, gli Stati Uniti, l’autoesilio dalla Germania nazista.
Lo sguardo di Thomas Mann, lo straniero, il separato, l’esiliato, è originariamente e necessariamente ambiguo. L’uomo che ha scelto con pervicacia lo spirito borghese del padre senatore è, al contempo, l’uomo nietzschiano, di genio, devoto allo spirito materno. Dal saggio su Schopenhauer del 1938 leggiamo: “L’erotismo della morte come sistema di pensiero logico-musicale nasce da un’enorme tensione di spirito e sensualità – una tensione il cui risultato, la scintilla che ne scocca, è appunto erotismo”. L’erotismo musicale di Mann scorre verso ciò che è perduto, ciò che non è più, e che tuttavia appare smagliante proprio perché protetto dietro un paravento e sussurrato dal leitmotiv wagneriano. Il protagonista del Doctor Faustus, Adrian Leverkühn, è un compositore, ispirato a Schönberg, che si ammala volontariamente per ottenere uno stato allucinatorio. Vende l’anima al diavolo in cambio del potenziamento delle forze intellettuali. La follia in cui precipita il musicista è, allegoricamente, il buco nero del Terzo Reich.